Václav #37
1 agosto - 6 settembre 2020
Václav torna dalla pausa estiva con un numero corposo e denso di notizie. Se è vero che solitamente si dice che agosto sia un mese noioso, quest’anno possiamo affermare senza rischiare smentite che è stato ricco di avvenimenti. Questa edizione si apre con due focus: il primo è dedicato alla crisi bielorussa e alle reazioni nell’area Visegrád, il secondo legato al “ritorno” del coronavirus, con le contromisure adottate dai vari Paesi. Devono vedersela anche con i duri contraccolpi alle loro economie.
A seguire, troverete una ricca carrellata delle più importanti notizie di ogni Paese. In Polonia si acuiscono le tensioni tra governo e comunità Lgbt+, in Slovacchia pochi giorni fa è stato pronunciato il sorprendente verdetto del processo Kuciak, che scagiona il principale imputato Marián Kočner, dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio del giornalista investigativo e della sua fidanzata Martina Kušnírová. In Ungheria, il governo Orbán continua nel suo programma di assimilazione dei centri culturali del Paese. La scelta di sostituire i vertici dell’Accademia di arte drammatica con personalità politicamente organiche, ha scatenato la protesta dei professori e degli studenti, che hanno occupato l’istituto. In Repubblica Ceca, per finire, a tenere banco è la politica estera, in particolar modo lo scontro diplomatico con la Cina. La visita ufficiale a Taiwan di una delegazione di 90 funzionari, guidata dal presidente del Senato, ha provocato profonda irritazione a Pechino. Il ministro degli Esteri cinese ha annunciato che ci saranno conseguenze.
Questo è solo un anticipo di quanto troverete in questa edizione del Václav, il resto vi invitiamo a scoprirlo da voi. Buona lettura!
Focus 1 | La Bielorussia vista da Visegrád
Minsk, uno studente fermato durante la marcia di protesta degli universitari, tenutasi a Minsk il primo di settembre / Tut.by
Le elezioni presidenziali del 9 agosto in Bielorussia hanno visto la vittoria con l’80,10% delle preferenze di Aleksandr Lukashenko, che occupa la carica dal 1994. Il risultato è stato immediatamente contestato dalle opposizioni e da gran parte della società civile, che ha accusato Lukashenko di aver truccato il voto con brogli, intimidazioni e arresti per motivi politici. Due dei suoi principali avversari nella corsa alla presidenza, Viktor Babaryko e Sergei Tikhanovsky, erano finiti in carcere nei mesi scorsi, mentre un terzo, Valery Tsepkalo ha lasciato il Paese, fuggendo in Russia. Temeva l’arresto.
Al posto dei tre si erano candidate le rispettive mogli, Maria Kolesnikova, Veronika Tsepkalo e Svetlana Tikhanovskaya. Sarebbe quest’ultima la vera vincitrice delle elezioni, secondo l’opposizione, sebbene lo scrutinio le abbia assegnato solo il 10,12% dei voti. Le proteste, che tutt’oggi vengono portate avanti in tutta la Bielorussia, sono state oggetto di una dura repressione da parte delle forze di polizia, con il testa il reparto speciale degli Omon, con arresti, violenze e torture. Un articolo riepilogativo è stato pubblicato il 31 agosto da The Vision.
Inevitabile la reazione nei Paesi dell’area Visegrád. Tra i primi a scendere in piazza per esprimere vicinanza al popolo bielorusso sono stati i cittadini cechi. Un migliaio di persone hanno manifestato nelle strade di Praga sventolando una grande bandiera bianco-rossa, utilizzata dalla Bielorussia tra il 1991 e il 1995 (e precedentemente nel 1918-19), dopo lo scioglimento dell’Unione sovietica. Poi Lukashenko ripristinò il drappo dell’epoca comunista, solo leggermente modificato: via la falce e il martello.
Minsk, Praga, Danzica
Come riporta l’agenzia Reuters, il premier Andrej Babiš ha chiesto all’Unione europea di intervenire al fine di evitare quanto accaduto in Cecoslovacchia nel 1968, quando i carri armati del Patto di Varsavia soffocarono nel sangue la Primavera di Praga. Ha inoltre esortato la ripetizione delle elezioni, sotto l’osservazione di un organismo indipendente. Lo scrive Prague Morning. Un’ipotesi nemmeno presa in considerazione da Lukashenko, che ha più volte sostenuto pubblicamente che le proteste sarebbero organizzate da Polonia, Repubblica Ceca e Regno Unito. Lo riferisce l’agenzia di stampa russa Tass.
Dibattito acceso anche in Polonia, unico dei Paesi V4 a confinare direttamente con la Bielorussia. Su Project Syndicate, l’intellettuale di sinistra Sławomir Sierakowski, direttore dell'Institute for Advanced Studies di Varsavia, intervista Adam Michnik, ex dissidente, mente di Solidarność, fondatore del quotidiano liberale Gazeta Wyborcza. Ne esce una lunga discussione su democrazia, libertà, regimi, mondo post-sovietico. Michnik si dice stupito per ciò che sta accadendo a Minsk. Definisce la protesta come una “rivoluzione della dignità” e la paragona alla Rivoluzione di velluto cecoslovacca del 1989, oltre che a quella di Solidarność. Con una differenza chiara, però: se Lukashenko cadesse, il nuovo potere dovrà gestire in modo cauto, “civile”, il rapporto con Mosca.
“Adam Michnik, fondatore del quotidiano liberale Gazeta Wyborcza, paragona le attuali proteste a Minsk a quelle della Rivoluzione di velluto a Praga e di Solidarność, nella Danzica del 1980, con una differenza però: se Lukashenko cadesse, il nuovo potere dovrà gestire in modo cauto i rapporti con Mosca.”
Anche la Slovacchia ha voluto mostrare la sua vicinanza ai cittadini bielorussi illuminando di bianco e di rosso – ne dà notizia lo Slovak Spectator – il castello e il palazzo presidenziale di Bratislava, dove l’ambasciatore bielorusso, Igor Leschenya, si è schierato a favore dei dimostranti anti-Lukashenko. «Manifesto la mia solidarietà nei confronti delle persone che sono scese in strada nelle città bielorusse, con marce pacifiche, per fare sentire la propria voce», ha dichiarato il diplomatico in un video risalente al 16 agosto. Lo riferisce Kafkadesk, spiegando che Leschenya, dimessosi in segno di protesta, è stato il primo funzionario di alto rango a prendere le distanze dal regime di Minsk.
La cautela di Orbán
Più sfumato è stato l’atteggiamento dell’Ungheria sulla questione. Dopo alcuni giorni di silenzio – scrive Euronews – il premier Viktor Orbán ha chiesto all’Unione europea di avviare un dialogo con la Bielorussia. Lo scorso giugno, va ricordato, aveva spronato Bruxelles a rimuovere definitivamente le sanzioni nei confronti di Minsk, adottate in passato e sensibilmente ridotte nel 2016. Il ministro degli esteri Péter Szijjártó ha in seguito affermato che anche Budapest è d’accordo nel chiedere la ripetizione delle elezioni sotto la vigilanza di un organismo internazionale. Lo riporta Hungary Today.
Focus 2 | Il “ritorno” del coronavirus
Polonia: voli ridotti e rientro a scuola
Dopo qualche mese in cui la curva dei contagi si era drasticamente ridotta, l’epidemia di Covid-19 ha ricominciato a destare qualche nuova preoccupazione in Europa Centrale. Dal punto di vista sanitario il Paese che ha registrato il numero maggiore di casi nel mese di agosto è stato la Polonia, che è arrivata a superare i 900 contagi giornalieri, per poi scendere sotto questa soglia a fine mese. Tra le misure prese dalla autorità per contenere la diffusione del virus c’è la chiusura delle frontiere aeroportuali nei confronti di 46 Paesi, tra i quali figurano Francia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Brasile, Romania e Croazia. Il provvedimento è attivo dal primo settembre. La notizia da Reuters.
Nello stesso giorno c’è stato il ritorno degli studenti a scuola. Niente controllo della temperatura, né obbligo di mascherina da parte del governo. Saranno eventualmente i presidi a decidere in merito. Lo riporta sempre Reuters. La riapertura delle scuole è un tema che ha diviso molto l’opinione pubblica. Secondo un sondaggio condotto dalla SW Research, il 43,1% si è detto favorevole al ritorno in aula, ma il 33,3%, un valore non certo basso, si è dichiarato contrario. Il resto delle persone ha detto di non avere un’opinione in merito. Dal Warsaw Business Journal.
Frontiere rigide in Ungheria, mascherina su a Praga
L’incremento dei casi in Ungheria ha invece indotto il governo a prendere misure molto dure sulle sue frontiere. Inizialmente era stata prevista la chiusura nei confronti di qualsiasi straniero, poi si è optato per fare un’eccezione per i cittadini degli altri Paesi Visegrád. I commissari Ue alla Giustizia e agli Affari interni, Didier Reynders e Ylva Johansson, avevano contestato il provvedimento, ritenuto discriminatorio verso gli altri cittadini comunitari, oltre che inefficiente dal punto di vista sanitario. Ne ha parlato EuObserver, qui e qui. È forse per queste pressioni che Budapest ha modificato la rotta, prevedendo la possibilità di ingresso nel Paese per motivi di lavoro o per assistere a eventi sportivi. Ne dà conto Ungheria News.
Meno drastiche le misure prese dalla Repubblica Ceca, anch’essa alle prese con una decisa recrudescenza dell’epidemia, arrivata a un certo punto a 650 nuovi casi giornalieri. Il governo ha però reintrodotto l’obbligo di indossare la mascherina negli esercizi commerciali al chiuso, sui mezzi pubblici, nelle stazioni e negli aeroporti, riferisce Expats.cz. Casi in aumento anche in Slovacchia, dove il quadro epidemiologico è comunque migliore. Come riporta Buongiorno Slovacchia, il governo ha approvato un nuovo piano pandemico per fronteggiare non solo il Covid-19, ma anche altre malattie respiratorie. Si baserà su 14 indicatori: aiuteranno a scegliere le mosse specifiche da attuare di volta in volta, su base nazionale e regionale.
Sboom economico
La crisi generata dal lockdown primaverile ha presentato il suo conto, salato, all’economia. I dati per il secondo trimestre 2020 sono negativi in tutta l’area Visegrád, e ciò era ampiamente previsto. In tutti i Paesi si è registrata la flessione più drastica, in termini di crescita, dal 1989.
“Il secondo trimestre 2020 ha fatto registrare la peggior flessione in termini di crescita per tutti i Paesi dell’area Visegrád. Come valore assoluto, il peggiore è quello ungherese: -13,6%. ”
Come valore assoluto, la performance peggiore è quella ungherese: -13,6%. Come sottolinea ING in un’analisi riportata da Ansa, ci vorranno due-tre anni per recuperare. Male anche la Slovacchia (-12,1%), dove pesano il crollo del settore manifatturiero e dell’industria automobilistica (Buongiorno Slovacchia) e Repubblica Ceca, che segna -11% su base annua: forte l’incidenza della domanda dall’estero, in caduta verticale. La notizia su Radio Praga. La recessione è pesante, ma più contenuta, in Polonia, con un -8,2%. Un’analisi di Bank Millennium fa notare come questo calo sia fisiologico e si sia già entrati in una fase di recupero. Lo riporta il Warsaw Business Journal.
Polonia
Solidarność, la rivoluzione dei lavoratori
In un lungo e dettagliato articolo, Deutsche Welle ricostruisce l'epopea di Solidarność, il sindacato che diede alla Polonia la libertà dal comunismo. È ricorso il quarantesimo anniversario dalla sua fondazione, sancita con gli Accordi di Danzica del 31 agosto del 1980 (a livello formale il sindacato fu registrato due settimane più tardi). Dopo la legge marziale del dicembre 1981, Solidarność fu messo al bando. Ricomparve nel 1989, strutturandosi in partito politico e vincendo le elezioni che sancirono la transizione, patteggiata, alla democrazia. Come sottolinea la testata tedesca, fu cruciale il fatto che la protesta fosse guidata dai lavoratori. Operai che insorsero, pacificamente, contro uno Stato che, in teoria, avrebbe dovuto rappresentare i loro interessi. Senza questo fattore, difficilmente avrebbe prodotto l'impatto che ebbe: un’enorme e decisiva spallata al comunismo in Polonia e al Muro di Berlino.
Fondamentale, in Solidarność, fu il ruolo di Lech Wałęsa, che assunse la guida del sindacato e che oggi viene visto come traditore da Diritto e Giustizia (PiS). Per i suoi esponenti, Wałęsa fu semplicemente un collaboratore dei servizi segreti del regime polacco, tesi che il fondatore di Solidarność ha sempre smentito. Tra le tante divisioni che la Polonia affronta, c'è anche la memoria.
Una foto dei cantieri navali di Danzica, il “quartier generale” della rivoluzione di Solidarność / Wikimedia
Io, Wałęsa
Lo scorso anno Wałęsa ha concesso una lunga intervista al nostro Matteo Tacconi, per i microfoni di RSI, la radio-tv svizzera in lingua italiana. Molto densa la parte sulla legge marziale del dicembre 1981, imposta dal generale Wojciech Jaruzelski, e il giudizio su quest’ultimo:
Nel corso del tempo ho chiesto ai più importanti politici dell’epoca, compresi i generali, perché durante il comunismo avessero compiuto determinate scelte, e tutti risposero che l’avevano fatto per paura del potere sovietico. Avevano visto i missili che avrebbero potuto colpire la Polonia, e pertanto pensavano che per migliorare le cose bisognava aspettare il momento giusto. Nel frattempo, dal loro punto di vista, fermare i nostri tentativi di rivoluzione era patriottico. Io stesso se avessi avuto notizie chiare sulla potenza delle armi sovietiche, forse sarei stato meno intraprendente. Ma pensavo: abbiamo il Papa, c’è la guerra in Afghanistan, a Mosca ci sono segnali di destabilizzazioni. Vedevo una possibilità di uscita dal comunismo, e alla fine vincemmo noi. Come giudicare allora i generali? La gente che non sa certe cose pensa che tradirono la Polonia. Ma furono loro a tradirla? O forse l’Occidente nel 1939, quando non la difese dalle aggressioni nazista e sovietica?
Eroe del ghetto, eroe della libertà
Jacobin, magazine internazionale di sinistra, si sofferma sulla figura di Marek Edelman, uno dei comandanti della rivolta del ghetto di Varsavia, del 1943. Edelman, ex militante del Bund, partito della sinistra ebraica polacca, fu esponente dell'ala progressista e socialista di Solidarność. E Solidarność, a sua volta, cercò di scavare nella storia del Paese, di creare delle connessioni con delle pagine della biografia nazionale occultate negli anni del comunismo: la questione ebraica era una di queste.
Rimpasto
Nelle scorse settimane sono cambiati due membri del governo. Lascia il palazzo Łukasz Szumowski, innanzitutto. Era alla Sanità, ed era finito nell'occhio del ciclone per via di alcune procedure legate all'acquisto di prodotti sanitari per la lotta al Covid19. Szumowski ha sempre negato l'accaduto, ma è possibile che il governo abbia scelto di sacrificarlo proprio per via di questa faccenda. Al suo posto, Adam Niedzielski, ex numero uno del Servizio sanitario nazionale.
Cambio anche al vertice della diplomazia, con le dimissioni, un po’ a sorpresa, di Jacek Czaputowicz. Il premier Mateusz Morawiecki ha scelto come nuovo titolare degli esteri Zbigniew Rau. Molto critica l'opposizione. Rau non ha esperienza in materia e, oltre a questo, ha espresso posizioni molto dure verso le comunità Lgbt+, scrive il New York Times.
Lgbt+: la nuova frattura polacca
La questione dei diritti delle minoranze sessuali è divenuta un terreno di scontro politico e culturale negli ultimi mesi. Governo e Chiesa hanno assunto posture durissime, fomentando la discriminazione, secondo l’opposizione (più quella di sinistra che quella liberale), la stampa democratica e le Ong. L’apice della tensione tra governo e comunità Lgbt+ è stato raggiunto il 7 agosto a Varsavia, quando la polizia è intervenuta con estrema durezza per sgomberare una manifestazione, non autorizzata ma pacifica, nata per esprimere solidarietà a Margot, un’attivista transgender arrestata per aver vandalizzato un furgoncino che da diversi mesi gira per la capitale polacca con degli slogan che associano l’omosessualità alla pedofilia. Le forze dell’ordine hanno arrestato una cinquantina di persone, tra cui un ragazzo italiano, per poi rilasciarle nel giro di 48 ore, e i metodi utilizzati dai poliziotti sono finiti sotto accusa. Del caso si sono occupati tra gli altri Balkan Insight e Neg.zone
“La conferenza dei vescovi polacchi (Kek) propone la creazione di cliniche per aiutare le persone Lgbt+ a “riacquisire il naturale orientamento sessuale.”
La posizione della Chiesa
Non ha certo aiutato ad alleviare la tensione, la posizione della Conferenza episcopale polacca (Kek), che ha diffuso un documento sulla questione Lgbt+. I membri della comunità meritano rispetto, come tutti gli altri esseri umani, e uno stato di diritto non deve discriminare, sostengono da un lato i vescovi polacchi. Dall'altro, esortano la comunità Lgbt+ a non diffondere tesi e letture del mondo suscettibili di minare l'ordine naturale della società. Oltre a questo, la Kek propone la creazione di cliniche per aiutare le persone Lgbt+ a "riacquisire il naturale orientamento sessuale”. Lo scrive Notes From Poland.
Un “premio di Stato” per chi discrimina
Circa 80 comuni polacchi, seguendo una campagna lanciata lo scorso anno dal giornale di destra Gazeta Polska si sono dichiarati Lgbt+-free. Sei di questi, tempo fa, avevano chiesto e ottenuto fondi Ue per un programma di gemellaggi europei. La Commissione ha però bloccato l'erogazione di queste risorse, sostenendo che i sei comuni, poiché portano avanti politiche discriminatorie, violano i principi europei e dunque non sono idonei a ricevere questi fondi. Come riferisce Euronews, il governo polacco si è detto disposto a compensare i sei comuni, a suo avviso puniti ingiustamente dalla Commissione. Il primo comune a ricevere un assegno governativo - di importa maggiore all'entità del finanziamento Ue negato - è stato quello di Tuchów. L'assegno è stato consegnato personalmente dal ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro, considerato uno dei falchi dell’esecutivo.
Slovacchia
Bratislava, marzo 2018: la prima delle manifestazioni seguite all’omicidio di Ján Kuciak e Martina Kušnírovà / Wikimedia
Omicidio Kuciak, Kočner assolto
L’imprenditore Marián Kočner, è stato assolto dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová, avvenuto nel febbraio del 2018. È questo il verdetto a sorpresa emesso dai giudici al termine di un processo durato 18 mesi. Anche un’altra imputata, Alena Zsuzsová, è stata giudicata innocente. Secondo la motivazione del tribunale, non sono state trovate prove del loro coinvolgimento nell’organizzazione dell’omicidio.
Kočner, che da alcune ricostruzioni aveva manifestato fastidio per le inchieste di Kuciak sui legami tra politica e oligarchie economiche, è stato ritenuto colpevole soltanto per detenzione illegale di armi, e per questo gli è stata inflitta una sanzione di 5mila euro, o una pena alternativa di cinque mesi di reclusione. La sentenza ha avuto un’ampia eco internazionale. Ne hanno parlato, tra gli altri, New York Times e Deutsche Welle. Come riportato da Agenzia Nova, la presidente Zuzana Čaputová si è detta scioccata dal verdetto.
Lo strano caso di Jozef C.
Jozef Chovanec era un cittadino slovacco. Due anni fa venne arrestato all’aeroporto di Charleroi dopo aver dato in escandescenza sul volo che lo aveva condotto nella città belga. Morì per un arresto cardiaco il giorno dopo essere stato rinchiuso in una cella d'isolamento dello scalo aeroportuale. Un video pubblicato di recente mostra Chovanec assalito da un gruppo di agenti che cercano di immobilizzarlo. Uno di loro gli si siede sopra per 16 lunghi minuti, mentre una poliziotta fa un saluto nazista. Il video ha fatto scalpore in Belgio per la brutalità dei metodi adoperati dalla polizia. Il governo di Bratislava ha chiesto alle autorità belghe di fare piena chiarezza sull'accaduto. Della vicenda si occupano Politico e Bbc.
Guerra diplomatica con Mosca
La Slovacchia ha espulso tre diplomatici russi. Uno di loro aveva ottenuto dal consolato slovacco a San Pietroburgo un visto per viaggiare nell'area Schengen, ma i documenti presentati erano falsi. Lo stesso uomo è sospettato di aver partecipato a un omicidio a Berlino, come confermato dal premier slovacco Igor Matovič. Balkan Insight evidenzia che si tratta di un'inversione di tendenza rispetto al 2018, quando quello di Bratislava fu l'unico governo dell'Europa Centrale a non espellere diplomatici russi dopo l'avvelenamento dell'agente segreto Sergej Skripal’ in Inghilterra. La reazione del Cremlino non si è fatta attendere: il 31 agosto Mosca ha comunicato l'espulsione di tre diplomatici slovacchi. Lo riferisce Radio Free Europe.
L'automotive mette la quinta
Porsche si prepara a sbarcare in Slovacchia. Il colosso automobilistico tedesco investirà 250 milioni di Euro per creare uno stabilimento che darà lavoro a circa 1200 persone. La fabbrica verrà costruita entro il 2024. Dovrebbe divenire operativa due anni dopo. Porsche diverrà il quinto grande gruppo automobilistico a produrre in Slovacchia, aggiungendosi a Volkswagen, Psa, Kia Motors e Jaguar Land Rover. Un segnale importante in un momento critico, segnato dalla pandemia, che presenta difficoltà anche per il settore trainante dell'industria slovacca.
“Porsche è pronta a sbarcare in Slovacchia, il Paese europeo con il più alto valore di auto prodotte pro capite. Porsche sarà il quinto grande gruppo automobilistico a produrre nel Paese, dopo Volkswagen, Psa, Kia Motors e Jaguar Land Rover. ”
Bratislava senza turisti
Una delle conseguenze più evidenti di quanto il 2020 sia un anno diverso dai precedenti è la mancanza di turisti stranieri. Un po' per l'effetto delle tempestive misure anti coronavirus adottate dal governo, in parte per le regole imposte ai vacanzieri dai Paesi stranieri, i turisti stanno disertando la capitale Bratislava. Non ci sono ancora dati sulle presenze nei mesi estivi. Quelli di marzo, comunicati dall’Ufficio statistico nazionale, indicavano un crollo del 71% rispetto al 2019. Una situazione complicata, che si ripercuote su molti operatori del settore, come illustra un reportage di Rob Cameron, corrispondente a Bratislava della Bbc.
Repubblica Ceca
Crisi diplomatica con la Cina
Le relazioni diplomatiche tra Repubblica Ceca e Cina sono tese da parecchio tempo. I rapporti hanno cominciato a deteriorarsi verso la fine del 2018, quando l’Ente ceco per la sicurezza cibernetica e informatica (Nukib) definì Huawei un pericolo per la sicurezza nazionale in quanto la tecnologia del colosso cinese permetterebbe al suo governo di spiare le istituzioni chiave del Paese. Nella primavera di quest’anno è stato firmato un protocollo congiunto tra Praga e Washington sulla sicurezza delle reti 5G, che ha di fatto escluso Huawei dal mercato ceco.
“Una delegazione di 90 funzionari cechi guidata dal presidente del Senato Vystrčil si è recata in visita ufficiale a Taiwan. In un quadro di relazioni diplomatiche già tese la reazione di Pechino è stata durissima: il ministro degli Esteri cinese ha promesso che ci saranno conseguenze. ”
In un quadro già critico, la recente visita ufficiale a Taipei da parte di una delegazione di 90 funzionari cechi, guidata dal presidente del senato Miloš Vystrčil, ha solo acuito le tensioni. A Pechino hanno destato scalpore le parole di Vystrčil in un discorso al Parlamento di Taipei. «Io sono taiwanese», ha dichiarato, richiamandosi al famoso Ich bin ein berliner pronunciato da John Fitzgerald Kennedy. Un racconto dettagliato della visita è stato fatto da Radio Praga. La reazione di Pechino è stata molto dura, al punto da sfociare in vere e proprie minacce, come quella formulata dal ministro degli Esteri Wang Yi, riportata da Asia Times: «Il governo e il popolo cinese non staranno a guardare, e Vystrčil pagherà un caro prezzo per il suo comportamento miope e il suo opportunismo politico». A rincarare la dose è stato il presidente ceco Miloš Zeman, che ha definito il viaggio di Vystrčil, una personale iniziativa di quest’ultimo, non organizzata dal governo, come una «fanciullata», riferisce Politico. Solidarietà al presidente del Senato ceco è stata espressa da Parigi, Berlino e Bratislava, si legge su Euractiv.
Le rivendicazioni del Liechtenstein
Il Liechtenstein ha presentato un esposto formale alla Corte europea dei diritti umani per reclamare la restituzione di circa 50mila ettari di terreno e di altre proprietà, comprendenti castelli e palazzi, situati in Repubblica Ceca ed espropriati al principe del Liechtenstein dopo la Seconda guerra mondiale. Al termine del conflitto, l’allora Cecoslovacchia varò i cosiddetti decreti Beneš, che legittimarono l’espulsione dei tedeschi dal Paese, oltre alla confisca dei loro beni. Il principe del Liechtenstein, appunto, fu considerato tedesco. Il Liechtenstein ritiene l’atto illegale. Il contenzioso è spiegato da Financial Times ed Euronews.
Ungheria
Occupazione contro occupazione. Gli studenti insorgono contro le nomine filo-governative all’Accademia d’arte drammatica di Budapest / Hungary Today
L’Accademia occupata
Non si ferma il progetto del governo Orbán di assimilazione di tutti i centri di informazione indipendente e di produzione culturale del Paese. Dopo aver smantellato di fatto l’Accademia delle Scienze un anno e mezzo fa, e dopo avere costretto la Central Europe University di George Soros a trasferirsi a Vienna, il governo ha recentemente preso il controllo dell’Accademia d’arte drammatica di Budapest, mettendo uomini di fiducia nelle posizioni apicali. Molti docenti hanno rassegnato le dimissioni, mentre gli studenti hanno occupato l’edificio principale. Mentre andiamo online la loro protesta è ancora in corso. Un approfondimento dal New York Times.
Budapest lotta per la casa
Gentrificazione e caro-affitti non sono problemi delle sole capitali occidentali. Li soffre anche Budapest, diversamente da quello che si potrebbe immaginare. Le cause sono varie e passano da un mercato ristretto a un atteggiamento politicamente avverso, per ragioni storiche, all’edilizia pubblica e alle case popolari. L’effetto? Il 30% degli ungheresi che vivono in affitto spende solo per la casa metà del proprio reddito mensile. Un interessante approfondimento, firmato da Edit Inotai per Reporting Democracy, progetto di Balkan Insight.
Tutti contro Orbán
Sempre a firma di Edit Inotai, sempre su Balkan Insight, un’analisi della notizia più interessante dell’anno per la politica interna ungherese: i partiti di opposizione presenti in parlamento sono pronti a presentare una lista unica in vista delle politiche del 2022, allo scopo preciso di sconfiggere Viktor Orbán e il suo partito Fidesz. Si tratta di un esperimento tanto ambizioso, quanto rischioso, per via della composizione politica estremamente variegata che avrà la coalizione: dai verdi ai socialisti passando per Jobbik, un tempo di estrema destra, ora più destra sociale.
Un musical su Puskás
Chissà quanti, tra i giornalisti sportivi di ieri e di oggi, avranno usato la metafora della danza per descrivere le movenze di Ferenc Puskás con il pallone tra i piedi. Ebbene, il leggendario capitano e cannoniere della nazionale ungherese, vice-campione del mondo in occasione dei mondiali in Svizzera del 1954, sarà protagonista di un musical dedicato alla sua vita e alla sua carriera calcistica. Gli ideatori hanno organizzato la première per il 20 agosto, in occasione del 75esimo anniversario dell’esordio di Puskás con la maglia della nazionale. I dettagli su Repubblica.
Il leggendario campione ungherese Ferenc Puskás / Wikimedia
Chi siamo, dove siamo
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E poi scriviamo i longform. Articoli molto lunghi, da leggere tutti d'un fiato, su cultura, storia, politica e società dei Paesi dell'Europa Centrale. Non inseguiamo l'attualità, cerchiamo piuttosto di promuovere un giornalismo lento e attento. Ecco l'archivio della sezione.