Varsavia lotta per la casa
di Salvatore Greco
Il primo marzo del 2011 Jolanta Brzeska, 64 anni, esce dalla casa dove vive, poco a sud del centro di Varsavia, e non vi fa più ritorno. Non ha con sé il suo telefono cellulare, rintracciarla è impossibile. Il 5 marzo, quattro giorni dopo, la figlia Magdalena denuncia la sua scomparsa alla polizia. Il 7 marzo, mentre passeggia nel boschetto suburbano di Kabaty, un passante si imbatte in un cadavere carbonizzato. L’autopsia rileva come cause del decesso le ustioni su tutto il corpo e l’avvelenamento da monossido di carbonio prodotto dalla combustione. Le analisi del Dna che seguono confermano i timori della famiglia di Jolanta Brzeska, la donna arsa viva è la loro congiunta.
Le prime ipotesi degli inquirenti parlano di suicidio, ma sono molte le cose che non tornano. Non ci sono biglietti o messaggi di addio e i gesti della donna immediatamente precedenti, da un prelievo bancomat a un pezzo di carne lasciato a scongelare prima di uscire, non sembrano appartenere all’universo simbolico di chi si prepara a togliersi la vita. Inoltre, e questo è il primo pensiero della famiglia della donna, Jolanta Brzeska ha qualcosa che normalmente una mite pensionata di periferia non ha: dei nemici potenti.
Quando viene trovato il suo cadavere, la Brzeska è già da anni un personaggio piuttosto noto alle cronache varsaviane. La palazzina in cui vive era una casa popolare fino al 2006, quando si presenta alla sua porta il rappresentante dei proprietari dello stabile di prima della guerra che lo hanno appena riacquistato dal comune. I nuovi-vecchi proprietari annullano i contratti di affitto vigenti con il comune e ne impongono di nuovi, a quote molto più alte, impossibili da sostenere per la famiglia della Brzeska come per il resto di quelle che ci vivono. Gli inquilini allora costituiscono il primo nucleo del sindacato inquilini di Varsavia (Wsl) di cui Jolanta Brzeska diventa subito una rappresentante di spicco. Dal 2007 in poi sulle famiglie della palazzina piovono notifiche di sfratto e intimidazioni. Porte sprangate, ronde private lungo la via, il plenipotenziario degli eredi che sposta la sua residenza a quell’indirizzo. Ma Jolanta Brzeska resiste, porta le sue istanze in tribunale, discute con il comune fino a quel primo marzo del 2011 in cui viene uccisa.
Che sia stata uccisa è una verità giuridica dal 2013, dopo le conferme di una commissione di esperti che ha escluso in ogni modo le possibilità del suicidio. A oggi non si conoscono i nomi né degli esecutori né dei mandanti dell’omicidio di Jolanta Brzeska, ma quello che la legge non è in grado di provare è diverso da quello che è possibile ipotizzare guardando i fatti. Non hanno aspettato le sentenze anarchici e movimenti per la casa che ne hanno fatto un loro simbolo di lotta. La donna, da inquilina qualsiasi di un edificio da riqualificare, era diventata il simbolo di una lotta agli interessi di un’affollata terra di nessuno che covava da anni ed è esplosa di recente, quella creata dalla (non) legge sulla reprywatyzacja.
Un caos chiamato reprywatyzacja
Per capire la reprywatyzacja e le lacerazioni che ha causato nella capitale polacca bisogna partire da lontano.
Nel 1945 Varsavia è un cumulo di macerie. L’invasione nazista nel ’39, la liquidazione del ghetto nel ’43, l’insurrezione del ’44 e la successiva rivalsa nazista hanno portato la città a perdere più dell’ottanta per cento dei suoi edifici di prima della guerra. È in questo contesto che opera il Consiglio nazionale di Stato (Krajowa Rada Narodowa), l’autoproclamato parlamento che avrebbe aperto le porte alla costituzione della Polonia socialista. Al suo capo c’è Bolesław Bierut, futuro presidente della Repubblica, primo ministro e segretario generale del Partito operaio polacco unificato (Pzpr). Nel novembre del ’45 Bierut firma un decreto che porta il suo nome e che cancella la proprietà privata sui terreni della capitale. È un esproprio a tutti gli effetti, parzialmente contestato, ma che porta i suoi frutti: con uno sforzo collettivo impressionante, Varsavia viene ricostruita.
Nel 1989 la fine del socialismo e il passaggio a un’economia di mercato portano con sé molte matasse da sbrogliare, una su tutte è la legittima proprietà dei terreni e degli edifici di Varsavia. Il tema resta sul tavolo del consiglio dei ministri e nelle aule parlamentari per anni, senza che però qualcuno se ne occupi davvero, fino a che nel 1996 il Comune di Varsavia decide di procedere in autonomia iniziando ad accogliere le istanze di chi, già nel dopoguerra, aveva espresso un diritto al risarcimento blandamente previsto dal decreto Bierut. Si attiva un procedimento amministrativo abnorme, che riguarda 24mila immobili in tutta la città e spesso coinvolge eredi dei vecchi proprietari stabiliti ormai da tempo fuori dalla Polonia.
Si apre così lo spazio per un caravanserraglio di professionisti della restituzione, avvocati, notai o semplici cittadini che fiutano un buon affare e che fanno da mediatori per i proprietari lontani o acquistano da loro il diritto alla rivendicazione per specularci sopra. Uno di questi è Marek Mossakowski, di mestiere antiquario di libri e oggi proprietario formale di quattordici palazzi a Varsavia riscattati dal 1999 in poi nella cornice della reprywatyzacja. Uno di questi edifici, riscattato nel 2003, è la palazzina di via Nabielaka 9 dove vive la famiglia di Jolanta Brzeska.
Queste le dimensioni dell’affare di via Nabielaka per Mossakowski: 800 złoty (circa 200 euro) spesi per ottenere il diritto alla restituzione, 3 milioni di złoty (circa 750mila euro) richiesti al comune di Varsavia come indennizzo per i guadagni mancati per lo sfruttamento precedente dell’edificio e le quote di affitto maggiorato pretese dagli inquilini. Mossakowski, ritenuto dagli ambienti antagonisti come l’unico possibile mandante dell’omicidio della Brzeska, è raffigurato su alcuni muri di Varsavia armato di un fiammifero e di una tanica di benzina e la scritta che recita in polacco “Varsavia è facilmente infiammabile”, ma lui -nonostante le evidenze giuridiche- quando interpellato sulla questione continua a farvi riferimento come a un tragico suicidio.
Nel 2016 sulle pagine del quotidiano Gazeta Wyborcza inizia a uscire una serie di articoli firmati da Iwona Szpala e Małgorzata Zubik, poi raccolti in un libro di un certo successo, che svelano con quanta scarsa trasparenza, e a volte vera e propria commistione, il comune di Varsavia abbia condotto la reprywatyzacja. Intere palazzine acquistate per cifre simboliche, edifici rivendicati nonostante i proprietari avessero già ottenuto i fondi di indennizzo ma soprattutto rapporti di collaborazione tra alti funzionari dell’amministrazione cittadina e avvocati rappresentanti di eredi o presunti tali. Lo scandalo che ne esplode mina seriamente la credibilità dell’ex sindaco di Varsavia Hanna Gronkiewicz-Waltz e del suo partito Piattaforma Civica (Po), la cui linea economica neoliberista è per altro del tutto coerente con il senso profondo della reprywatyzacja. La Gronkiewicz-Waltz tuttavia resiste, forte del consenso che il suo partito mantiene in città e anche della debolezza dell’opposizione sul tema, dal momento che lo stesso Diritto e Giustizia (PiS), partito da sempre attento al tema del welfare, aveva iniziato l’operazione sotto l’amministrazione dell’allora sindaco della capitale, Lech Kaczyński.
L’affaire reprywatyzacja non ha poi avuto un effetto significativo sulle scelte elettorali dei varsaviani, che nel segreto dell’urna delle amministrative di ottobre 2018 hanno premiato già al primo turno Rafał Trzaszkowski di Piattaforma Civica, erede a tutti gli effetti dell’amministrazione Gronkiewicz-Waltz e del pensiero neo-lib che ne sta alla base ideologica, dando poco credito al candidato di Diritto e Giustizia Patryk Jaki, noto nella capitale come coordinatore proprio della commissione che dal 2017 si occupa di monitorare e supervisionare l’andamento della reprywatyzacja.
La lotta per la casa non si arresta
Il sindacato degli inquilini che Jolanta Brzeska aveva fondato oggi porta il suo nome, e il volto della donna compare su volantini, striscioni, manifesti e materiale informativo di ogni sorta prodotto dalla galassia per il movimento per la casa. Il movimento, che rivendica il suo essere nato dal basso e l’indipendenza rispetto ai partiti, dichiara sul sito del sindacato stesso che “La commissione di verifica non ispira fiducia al sindacato, e non potrebbe essere altrimenti visto che i membri della suddetta non si sono mai interessati prima degli edifici concessi dal municipio agli eredi o del destino di chi ci abitava. L’improvviso interesse del partito di governo alla riprivatizzazione a Varsavia è unicamente un freddo calcolo da usare nella guerra con Piattaforma Civica”.
A Varsavia, secondo dati riferiti al 2017, il costo medio di un appartamento superava gli 8000 złoty al metro quadro (circa 2000 euro) mentre quello per l’affitto va sui 50 złoty al metro quadro (circa 12 euro). In una città dove lo stipendio medio lordo nel settore privato (numeri dell’Istituto Centrale di Statistica Gus) si aggira sui 4800 złoty (1200 euro circa), dà la dimensione del problema abitativo.
Secondo le stime del sindacato inquilini, manca alloggio per un milione di persone in tutta la Polonia, e nonostante il settore edilizio sia in continua crescita (+7% nel 2017) non si tratta di edilizia popolare, ma esclusivamente di iniziativa privata che ha interessi commerciali distanti da quelli abitativi pubblici. Anche a colpo d’occhio è facile riconoscere per Varsavia palazzi moderni, e deserti, ergersi poco lontano da edifici fatiscenti, abbandonati a se stessi, spesso privi di riscaldamento centralizzato e di servizi igienici privati, e sempre più spesso sospesi sotto la spada di Damocle della reprywatyzacja incombente.
Sembra molto difficile che le istanze del sindacato inquilini possano realmente prendere piede in Polonia e soprattutto a Varsavia dove la sempre più consolidata borghesia cittadina guarda con sospetto a ogni forma di welfare. È altrettanto vero però che l’omicidio di Jolanta Brzeska non ha affatto fermato le istanze di chi lotta in un contesto così difficile, anzi le ha probabilmente infuocate. Sotto l’egida di questa signora con gli occhiali, così lontana dalle icone rivoluzionarie classiche, si riconoscono anarchici, autonomi, sindacalisti di base, sfrattati e diseredati di ogni genere e sorta, l’avanguardia di un esercito di sommersi che continua a lottare per non essere dimenticato.