Da 15 anni un'Europa minore
di Matteo Tacconi
Alle porte di Varsavia, nella tarda primavera del 2005, mi imbattei in una folta schiera di contadine sedute sul ciglio della strada a vendere fragole. E in centro – non il centro storico, ma quello finanziario – non c’era ancora la selva di grattacieli che c’è oggi. I negozi erano un po’ tristi, e i ristoranti modesti. Di Varsavia ebbi l’impressione che fosse una città amministrativa, impiegatizia. Una città piatta e poco divertente.
In pochi anni tutto è cambiato. La capitale polacca è oggi un cantiere a cielo aperto, ed è diventata una metropoli dinamica e stimolante, ricca di cose interessanti da fare e da visitare, pienamente calata nella dimensione del consumo di massa e della modernità, anche tecnologica, pur se mai dimentica della sua storia tragica. In moltissime delle sue vie, l’occhio può cadere su cippi e memoriali dedicati all’insurrezione del 1944: un atto eroico costato la distruzione della città, oltre che molte vite umane. E andò allo stesso modo con la rivolta del ghetto, l’anno prima.
Per arrivare a Varsavia, dove iniziai a scrivere i primi articoli dall’Europa Centrale, passai da Bratislava, fermandomici una notte. Ieri come oggi, venendo da Vienna, a un certo punto si alza compatto l’immenso conglomerato di condomini cuboidali del quartiere di Petržalka, adagiato tra il centro storico e il confine con l’Austria. Fu costruito negli anni Settanta. Dentro quelle torri, effigie dell’edilizia residenziale di epoca comunista, ci vivono più di 100mila persone. Petržalka, in quella tarda primavera del 2005, aveva ancora un aspetto cupo. I suoi palazzoni erano grigi, e molti di essi erano malandati. L’aspetto odierno del quartiere è profondamente diverso. I cubi di cemento sono colorati, gli spazi verdi che cadono tra loro sono stati sistemati e da un po’ è in funzione un tram rosso fiammante che collega il distretto al centro. Petržalka non è più il quartiere dormitorio che fu, e non c’è più traccia della fama di luogo di spacciatori e malviventi che lo connotò nel periodo comunista e fino all’adesione nell’Unione europea della Slovacchia. Fu sancita il primo maggio del 2004, quindici anni fa. Con la Slovacchia entrarono nell’Ue anche Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia. In quel viaggio andai raccontare i primi passi in Europa di quest’ultima, la più grande e importante delle nazioni dell’Europa di mezzo, sequestrate da Mosca al termine della Seconda guerra mondiale.
Vidi un Paese molto povero. La disoccupazione lambiva il 20%, il salario medio era pari a 400 Euro e le strade erano vere e proprie mulattiere. Per andare a Lublino, dove intervistai una donna – Marta – che per buona parte dell’anno faceva la badante in Italia e per l’altra lavorava nella sua fattoria, rischiai più volte di sbandare: il manto stradale era inciso dai solchi delle ruote degli autotreni, ogni sorpasso era un’avventura.
Oggi la percentuale dei senza lavoro in Polonia è pari al 3,5%, ai minimi storici dal 1989, l’anno della riconquista della libertà; il salario medio lordo ha superato i 1000 Euro e grazie ai fondi dell’Unione europea il Paese si è dotato finalmente di buone infrastrutture. La Polonia non è ricca, ma sta sicuramente molto meglio di quindici anni fa. Lo scatto di Varsavia ne è una prova. E la trasformazione di Petržalka testimonia che anche in Slovacchia i cambiamenti in questi quindici anni di Europa sono stati notevoli.
In tutto il resto della regione si registrano sostanzialmente tendenze analoghe, e d’altronde i Paesi dell’Europa Centrale per caratteristiche del mercato del lavoro, dei consumi e della struttura economica, fondata sull’export assicurato dalle aziende occidentali che vi hanno aperto filiali e fabbriche, si somigliano molto.
Guardando ai numeri, non c’è alcun dubbio: l’adesione all’Unione europea ha portato benefici evidenti a questa regione, schiacciata tra lo spazio tedesco e quello russo, vilipesa per secoli dagli imperialismi di Berlino, Vienna e Mosca. Mai prima d’ora l’Europa Centrale aveva vissuto una tale fase di stabilità economica e un simile livello di sicurezza, garantito dall’ombrello della Nato. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca vi aderirono nel 1999. La Slovacchia nel 2004, nello stesso momento in cui entrò nella Ue.
Nonostante questo, l’Europa Centrale è politicamente irrequieta. Nell’epoca del ritorno della destra, una nuova destra, ostile alla società liberale e al multiculturalismo, una destra che mescola elementi di turbo-capitalismo a generosi interventi di welfare, l’Europa Centrale ha confermato la sua fisionomia di laboratorio della Storia. L’Ungheria di Viktor Orbán si è messa nel gruppo di testa di questo movimento. La Polonia di Jarosław Kaczyński, leader de facto del Paese, la segue a ruota, pur se le sarà difficile creare un regime come quello magiaro, soprattutto per una questione di geografia politica: l’Ungheria, volendo sintetizzare, è una grande città, Budapest, con intorno una vasta campagna; la Polonia, avendo più centri urbani, più classe media e più corpi intermedi, è più difficile da ridurre a feudo personale.
Anche Repubblica Ceca e Slovacchia sono cantieri populisti degni di attenzione. A Praga, il primo ministro Andrej Babiš e il presidente della Repubblica Miloš Zeman si sono posizionati nel campo sovranista, l’uno da destra, l’altro (in teoria) da sinistra, soffiando sullo scetticismo che il Paese esprime nei confronti dell’Unione europea, come entità politica, come destino. Ma attenzione a non esagerare: l’ipotesi Czexit non esiste. A Bratislava gli ultimi dieci anni sono stati dominati dai governi di Robert Fico, un socialdemocratico che strizza l’occhio al populismo e che nel periodo 2006-2010 governò alleandosi con la destra nazionalista del Partito Nazionale Slovacco (Sns) e con Vladimír Mečiar, l’uomo che negli anni Novanta fece della Slovacchia una democratura corrottissima.
Le vibrazioni di questi anni erano già presenti, da prima che l’Ungheria virasse verso il sovranismo, influenzando il resto della regione. Solo che noi giornalisti non abbiamo voluto coglierle. Io, come parte del noi, lo ammetto candidamente: non ipotizzavo una simile evoluzione. La robusta crescita a livello economico e un certo entusiasmo legato alla retorica della riunificazione europea, ci hanno fatto credere che il destino dell’Europa Centrale fosse quello della democratizzazione e del progresso socio-economico senza ritorno. Abbiamo sottovalutato crepe e contraddizioni presenti tanto nella regione, quando nel modello di sviluppo proposto dall’Ue, che ha indiscutibilmente offerto crescita, ma anche ridotto le scelte a disposizione dei governi locali. Fondi strutturali e investimenti tedeschi, italiani, francesi, olandesi, attratti facendo leva su vantaggi di costo: rispetto a questo pacchetto non ci sono state molte alternative.
L’Europa ha dato, ma esiste sempre il rovescio della medaglia. Un esempio indicativo sta nel principio della libera circolazione dei lavoratori, tra le cose più apprezzate, nell’Europa Centrale, tra le tante portate in dote dall’adesione all’Ue. Da un lato, ha permesso a centinaia di migliaia di persone di potersi spostare all’estero alla ricerca di migliori opportunità o per mettere a frutto i propri talenti. Dall’altro, ha letteralmente svuotato di manodopera qualificata e buoni professionisti settori importanti. Uno è la sanità, dove mancano medici e infermieri, attratti dagli stipendi offerti negli ospedali dell’Europa occidentale. In Europa Centrale sempre più gente si chiede per quale motivo le buste paga, per uno stesso lavoro, siano così inferiori rispetto a quelle di Francia, Germania, Regno Unito, Irlanda, Olanda, Italia. Di recente nel settore automobilistico, volàno chiave dell’economia regionale, ci sono state varie agitazioni sindacali scaturite proprio in virtù di ciò. A tutto questo si aggiunge il fatto che l’ottimismo esibito nel 2004 verso il processo di convergenza economico tra le due Europe si è scontrato con la realtà. Va avanti, ma più lentamente del previsto.
La grande crisi finanziaria degli anni passati ha fatto venire a galla questo mosaico di contraddizioni, sprigionando disincanto verso l’Europa e i suoi limiti strutturali, e liberando al tempo stesso una densa serie di frustrazioni – certo a volte enfatizzate – legate alla Storia del Novecento e all’atteggiamento dell’Occidente verso le piccole patrie dell’Europa mediana. La mutilazione della Grande Ungheria nel 1920, con il Trattato del Trianon; la Cecoslovacchia sacrificata a Monaco nel ’38; la Polonia, rimasta indifesa davanti a Hitler nel settembre del ’39 e finita sotto le grinfie di Stalin al termine della guerra. I populisti dell’Europa Centrale, in questi anni, hanno costruito il loro consenso su queste ferite aperte e sulla critica al liberalismo e alle disuguaglianze sociali, dimostrandosi abili sia nel mettere a frutto il risentimento storico, sia a sintonizzarsi sulle frequenze della nuova destra mondiale, sapendo che in tempi di crisi le risposte di destra vengono recepite più facilmente.
Ma l’Europa Centrale non è persa. Un segnale incoraggiante arriva dalla Slovacchia. Dopo il terribile omicidio del giovane giornalista Ján Kuciak, avvenuto poco più di un anno fa, è sorto un movimento civile che chiede trasparenza, buongoverno e buona Europa, che ha costretto Robert Fico alle dimissioni da primo ministro (al suo posto è stato nominato il collega di partito Peter Pellegrini) e che ha spinto Zuzana Čaputová a vincere, anzi a stravincere, le recenti elezioni presidenziali.
Anche in passato l’Europa Centrale ha dimostrato di possedere gli anticorpi per superare i momenti più critici. A Danzica nacque Solidarność, il partito-sindacato che aprì la prima breccia nel Muro di Berlino. E a Praga, nel dicembre del 1989, andò in scena la memorabile esperienza della Rivoluzione di velluto. I protagonisti di quelle rotture furono due giganti della libertà, Lech Wałęsa e Václav Havel, poi divenuti presidenti polacco e cecoslovacco. E furono loro, insieme all’ex premier ungherese József Antall, a dar vita nel 1991 al Gruppo Visegrád, nell’intento di coordinare i percorsi dei loro Paesi verso la democrazia. Oggi questo foro di consultazione, allargatosi alla Slovacchia dopo la scissione tra Praga e Bratislava, maturata nel 1993, viene etichettato banalmente come un motore del movimento per la democrazia illiberale e per il rifiuto dei richiedenti asilo, come se fosse nato in questi anni, e intorno a queste pulsioni. Questo è indice del fatto che per quanto sia difficile cogliere il senso profondo di questo spazio, carico di complessità e sfumature, spesso cediamo alla pigrizia, scegliendo la lettura più facile. Sono passati quindici anni dall’allargamento europeo, ma per molti questa resta un’Europa minore, dove molte cose sono riconducibili a una cifra costante, data da un nazionalismo impenitente e dall’ostilità di fondo verso la democrazia.
Una volta, a Danzica, era il 2008, presi il battello che porta alla Westerplatte, la penisola che si affaccia sul Baltico, nonché il luogo dove il primo settembre 1939 iniziò la Seconda guerra mondiale. Il conducente, un omone baffuto, mi chiese da dove venissi. Appreso che fossi italiano, masticando un minimo d’inglese mi disse questo: «Boniek, Wojtyła, Wałęsa. Voi italiani sapete questo della Polonia». Lo fece scherzosamente, sorridendo sotto i suoi mustacchi, ma a pensarci bene non aveva proprio torto. Ancora oggi la nostra conoscenza della Polonia, come di tutta l’Europa Centrale, ruota ancora intorno a pochi personaggi e a tante semplificazioni.