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Espatriati dei Caraibi: polacchi-haitiani, rivoluzioni e vudù

di Lorenzo Berardi

 

Livorno, 17 maggio 1802. Un contingente di duemilacinquecento uomini attende schierato lungo le banchine trapezoidali della Darsena Medicea. Indossano le uniformi dell’Esercito rivoluzionario francese, precursore della Grande Armée napoleonica, e appartengono alla cosiddetta Legione del Danubio (Legia Naddunajska). Sono soldati polacchi e stanno per imbarcarsi, stipati stretti, su bastimenti francesi. Quella mattina di maggio, riuniti a Livorno, hanno una vaga idea di cosa li attende. I loro superiori gli hanno comunicato che dalla città labronica faranno rotta verso la Spagna. Giunti a Malaga e Cadice, nel giro di un paio di settimane, i granatieri e fucilieri polacchi salperanno ancora, con destinazione tenuta segreta. Molti di loro sono convinti di essere diretti nella Louisiana francese. Solo in mare aperto impareranno di trovarsi nel mezzo di un viaggio oceanico, sì, ma che non li condurrà all’allora La Nouvelle-Orléans, bensì al porto caraibico di Cap-Français. Qui, nell’attuale Cap-Haïtien, i polacchi sbarcano il 4 settembre 1802.


Questo longform rientra in una serie in corso d’opera sulla diaspora polacca, intitolata ‘I loro antenati’. qui sotto Le tre parti precedenti:

  1. L’Africa che accolse i polacchi

  2. Polonezköy, la Polonia sul Bosforo

  3. I polacchi di Harbin, Cina


L’arrivo ad Haiti

Cap-Français è un approdo di grande importanza strategica per la colonia francese di Saint-Domingue, l’odierna Haiti. Nove anni prima dell’arrivo delle truppe polacche, nel 1793, la città è stata saccheggiata e data alle fiamme. Ora la roccaforte francese resta al centro di un territorio in subbuglio. Quando i soldati inviati da Livorno vi mettono piede, sanno poco o nulla della brutta situazione nella quale sono capitati. Da undici anni Saint-Domingue (la medesima isola che Cristoforo Colombo chiamò Hispaniola) è messa a ferro e fuoco da una guerra di liberazione combattuta contro gli occupanti francesi.

È cominciata come una rivolta degli schiavi, spediti lì in catene dai territori degli odierni Angola, Benin e Nigeria per spaccarsi la schiena nelle piantagioni di cacao, canna da zucchero, indigofera, cotone e caffè. A Saint-Domingue vivono, o meglio sopravvivono, in condizioni terribili: alla mercé della violenza fisica dei les blancs, i loro padroni, privati di ogni diritto e sterminati da malaria, febbre gialla e fatica. Allo scoppio della rivolta, le persone in cattività sull’isola sono quasi mezzo milione e rappresentano il 90% di una popolazione che comprende anche gens des couleur libres, ossia schiavi liberati o mulatti nati da unioni miste. I padroni francesi chiedono e ottengono da Parigi l’invio di un corpo di spedizione per soffocare la ribellione: è composto da trentatremila soldati e comprende il contingente della Legione del Danubio.

‘Bitwa na San Domingo’ (La battaglia a Santo Domongo), dipinto del 1845 del polacco January Suchodolski, ritrae uno scontro fra polacchi e rivoluzionari haitiani

I polacchi fra due fronti

Il generale Władysław Franciszek Jabłonowski in una litografia del 1850

Dei 5280 soldati polacchi, divisi in tre battaglioni, sbarcati a Cap-Haïtien nel corso del 1802 e arrivati sia da Livorno che da Genova, soltanto un migliaio è ancora in vita un anno dopo. Tanti sono caduti in battaglia e molti hanno dovuto soccombere alla febbre gialla. Fra le vittime di questa malattia tropicale vi è il generale Władysław Franciszek Jabłonowski, figlio illegittimo di una principessa britannica e di un ignoto uomo africano, ma cresciuto a Danzica e di madrelingua polacca. Qualche anno più tardi sarà reso immortale da Adam Mickiewicz, che lo cita nell’epico ‘Messer Taddeo’ (‘Pan Tadeusz’). Versi purtroppo resi infelici dall’uso della parola murzynek (declinata al plurale), divenuta nel frattempo un termine dispregiativo rivolto a persone dalla pelle scura, e che era anche il soprannome di Jabłonowski. 

La rivoluzione prosegue e le cose si mettono sempre peggio per il corpo di spedizione napoleonico, tanto che numerosi ‘legionari del Danubio’ diventano prigionieri di guerra degli insorti. Circa 120 polacchi, invece, partecipano alla decisiva Battaglia di Vertières del 18 novembre 1803 schierandosi al fianco degli haitiani. Da un lato, sono stufi di essere pagati in ritardo, venire trattati come sottoposti dai francesi e poi spediti in prima linea. Dall’altro, identificano la lotta di quegli ex schiavi contro i loro oppressori coloniali come una guerra d’indipendenza non dissimile da quella combattuta per riappropriarsi della Polonia in Europa. Tanto più che si sentono traditi dai francesi, dopo che Napoleone nel 1796 gli aveva assicurato che se si fossero arruolati nel suo esercito, avrebbe un giorno ridato alla Polonia la propria indipendenza. Viste da quell’isola infuocata dei Caraibi, le parole di Bonaparte gli paiono ora una promessa da marinaio. 

 

La casa di Zalewski

Nel 1804, dopo tredici anni di scontri sanguinosi, sull’isola terminano le ostilità. Gli haitiani hanno vinto: i francesi levano le tende e il loro tricolore viene ammainato dal Palais du Gouvernement di Port-Républicain. La città torna al precedente nome di Port-au-Prince, l’ex colonia di Saint-Domingue diviene lo Stato indipendente di Haiti, la schiavitù viene abolita e gli occupanti bianchi uccisi o costretti a lasciare il Paese e le loro piantagioni. Con alcune, significative, eccezioni. L’anno seguente, uno dei leader della rivolta, Jean-Jacques Dessalines, pubblica la costituzione della nuova repubblica haitiana. I suoi articoli 12 e 13 meritano di essere riportati:

Art. 12 - Nessun bianco, qualunque sia la sua nazionalità, potrà mettere piede su questo territorio a titolo di proprietario terriero o di padrone, né potrà mai in futuro acquisire alcun bene.

Art. 13 - L’articolo precedente non è valido nei confronti delle donne bianche che sono state naturalizzate dal governo, né nei confronti dei figli che possano nascere loro. Sono inclusi nelle disposizioni di questo articolo anche i polacchi e i tedeschi naturalizzati dal governo.

Fra i polacchi “naturalizzati dal governo” e assimilati ai noir locali vi sono sia coloro i quali hanno combattuto per la causa haitiana, che prigionieri di guerra. Quante e quali naturalizzazioni siano decise dall’alto o richieste dal basso non è chiaro. Tuttavia è facile immaginare che fra i polacchi rimasti sull’isola qualcuno voglia riconquistare la libertà perduta in battaglia, qualcun altro sfuggire al carcere o all’esecuzione per alto tradimento che rischierebbe al ritorno in Europa e qualcuno, forse, abbia trovato l’amore sul posto. Restare sull’isola con la possibilità di costruirsi una casa e acquistare del terreno da coltivare pare una scelta plausibile.

Alcuni dei quattrocento o cinquecento polacchi divenuti haitiani si stabiliscono in remote comunità collinari o costiere oggi chiamate La Vallée-de-Jacmel, Fond-des-Blancs, La Baleine, Port-Salut e Saint-Jean-du-Sud. Altri scelgono Canton de Plateaux, una località abbarbicata sui monti e situata una trentina di chilometri in linea d’aria a nord di Port-au-Prince. Oggi questo villaggio si chiama Cazale (o Casale, o Cazales) e i locali assicurano che il nuovo toponimo sia una contrazione di “Kay Zalewski”, ossia “la casa di Zalewski” nella lingua creola del posto. Zalewski sarebbe il cognome dei suoi primi abitanti polacchi.  


Nove generazioni dopo, là-bas en Pologne

L’odierna Cazale è un villaggio di casupole in legno dai tetti di lamiera circondate da alberi di mango e unite da una ragnatela di strade sterrate. Lo taglia in due il corso del capriccioso torrente Ti Marre, solcato da un unico ponte. Conta una scuola, qualche bottega, una chiesa cattolica, una stazione radio locale e un monumento ai caduti di un eccidio compiuto qui dalla milizia dei Tonton Macoutes nel 1969. Nessuno a Cazale vive di turismo e pochi vi hanno un’entrata fissa, perlopiù coltivandovi piccoli lotti di terra. Le disgrazie abbattutesi su Haiti negli ultimi anni non hanno risparmiato il villaggio e i suoi abitanti, a partire dalle dittature militari dei Duvalier padre e figlio (i mandanti dei Tonton Macoutes), sino al devastante terremoto del 2010 e alla successiva crisi economica e alimentare, tuttora in corso.

La riscoperta mediatica di questo insediamento si deve al giornalista italiano Riccardo Orizio. Nel ‘96 visitò il villaggio e gli dedicò un capitolo del suo reportage ‘Tribù bianche perdute’, pubblicato da Laterza nel 2000, con una prefazione di Ryszard Kapuściński. Nel libro, Orizio riferisce che l’unico edificio costruito in pietra dai polacchi al loro arrivo, la chiesetta di San Michele Arcangelo, era crollato pochi mesi prima. A salvarsi dallo sfacelo, soltanto uno “strumento panciuto da orchestra simile al basso” assai rovinato e “un quadro di una Madonna con il bambino che ricorda la Madonna Nera di Częstochowa”. Quasi trent’anni dopo, del misterioso strumento musicale si sono perse le tracce, mentre l’icona sacra descritta è ancora visibile a Cazale.

Oggi sono passate nove generazioni da quando i polacchi-haitiani si trasferirono qui. Al di là di acconciature femminili che richiamano le trecce dell’Europa centro-orientale, dei lineamenti o degli occhi chiari di alcuni residenti, dei passi di un ballo definito «polka» e dell’insolita architettura di alcune abitazioni, a Cazale le tracce visibili di Polonia sono minime. Persino il recente monumento a Papa Giovanni Paolo II – che visitò Haiti nell’83 – è stato finanziato da donatori esteri e ha visto il coinvolgimento del governo di Varsavia, nell’impacciato tentativo di allacciare un dialogo con i locali. Sorprendente, invece, il progetto di C.T. Jasper e Joanna Malinowska, che il 7 febbraio 2015 hanno portato nelle strade di Cazale l’opera ‘Halka’ del compositore polacco Stanisław Moniuszko, con interpreti del Teatro dell’Opera di Poznań, ma orchestrali e danzatori locali. Quella rappresentazione, filmata, è divenuta l’installazione video ‘Halka/Haiti 18°48’05”N 72°23’01”W’, presentata alla Biennale di Venezia 2015.

Nonostante nessuno oggi a Cazale parli polacco e i contatti con la Polonia si limitino all’arrivo di sporadici giornalisti, ricercatori o vlogger, i suoi abitanti si definiscono ancora «Polone», “polacchi” in creolo, e usano l’espressione «Là-bas en Pologne», “laggiù in Polonia”, per riferirsi a un Paese per loro leggendario. Alcuni dei loro cognomi sono abbreviazioni di cognomi polacchi, come Belno o Belneau (da Belnowski) e Poto (da Potocki), mentre i residenti più anziani sostengono che decenni fa nel paese ancora ci si poteva imbattere in autentici Poniatowski. Verità o leggenda che sia, di sicuro, fra i nomi e cognomi haitiani oggi più diffusi se ne rintracciano almeno due di matrice polacca o ebreo-polacca, con uno spelling modificato: Lovinsky e Lorwinsky. Tuttavia, entrambi potrebbero essere legati a successive emigrazioni.

Un’immagine tratta da ‘Halka/Haiti 18°48’05”N 72°23’01”W’ che mostra la rappresentazione dell’opera ‘Halka’ a Cazale, il 7 febbraio 2015. (https://zacheta.art.pl © C.T. Jasper, Joanna Malinowska)

I legami vudù con Wrocław e Częstochowa

Un altro insospettabile legame fra la Polonia e Cazale riguarda il vudù. Nel villaggio, come nel resto di Haiti, le raffigurazioni dell’importante spirito guido della maternità noto come Ezilí Dantor o Erzulie Dantó assomigliano in modo singolare alla Madonna Nera di Częstochowa. È facile supporre che i soldati polacchi rimasti qui avessero con sé icone tascabili di quest’ultima, magari usate per dipingere l’immagine conservata a Cazale e poi gradualmente incorporate nei rituali vudù autoctoni.

Che fosse o meno a conoscenza di questo, alla fine degli anni ’70, il celebre regista teatrale polacco Jerzy Grotowski si recò ad Haiti e vi strinse amicizia con il sedicente sciamano vudù Amon Frémon, originario di Cazale. Al punto che Grotowski lo portò con sé in patria nel 1980, appena prima della proclamazione della legge marziale, facendolo partecipare alle performance del suo sperimentale Teatro delle Fonti (Teatr Źródeł) di Wrocław. Fu quindi Frémon il primo discendente dei polacchi-haitiani a visitare la Polonia, ma rientrato sull’isola tacque di quell’esperienza ai propri compaesani. Durante la sua visita a Cazale nel ’96, Orizio incontra l’anziano Frémon, ma non coglie nel suo racconto sconclusionato il nome e la professione di Grotowski, che suppone essere un ricco commerciante polacco vicino a Solidarność, chiamato “Detopski”. Il documentario ‘Sztuka znikania’ (L’arte della sparizione) di Bartosz Konopka e Piotr Rosołowski, realizzato nel 2012, racconta proprio questa bizzarra vicenda, prendendosi qualche licenza poetica nell’immaginare le avventure polacche dello sciamano.

Infine, va ricordato il curioso caso di Faustin E. Wirkus, un marine statunitense nato nella polacca Rypin, nei pressi di Toruń. Fra il 1926 e il 1929, durante l’occupazione americana di Haiti, Wirkus si fece incoronare “Re Faustino II” dell’isola haitiana di La Gonâve con rito vudù. Ma questa è un’altra storia.


Su questo tema, proprio nel 2025, è uscito un libro in Polonia. Lo ha scritto Zbigniew Marcin Kowalewski e si intitola ‘To nie jest kraj dla wolnych ludzi. Sprawa polska w rewolucji haitańskiej’ (Questo non è un paese per uomini liberi. La questione polacca nella rivoluzione haitiana).