L'Africa che accolse i polacchi
di Lorenzo Berardi
Questa è la storia di profughi di guerra e rifugiati polacchi accolti in Africa, settantacinque anni fa. Una vicenda da riscoprire in anni in cui centinaia di migliaia di persone fanno il percorso inverso, spesso scontrandosi con l'ostilità o l'indifferenza di chi dovrebbe ospitarli. Dal 1942 al 1950, 18mila polacchi hanno vissuto nel territorio di sette odierni Paesi africani: Kenya, Mozambico, Sudafrica, Tanzania, Uganda, Zambia e Zimbabwe.
Si trattava di ex deportati in Siberia costretti a lasciare il proprio Paese occupato dall'Unione Sovietica a seguito del patto Molotov-Ribbentrop con cui la Germania nazista e l’Urss si spartirono la Polonia. Una diaspora della quale oggi in Polonia si parla poco, forse perché molte di queste persone, a conflitto concluso, scelsero di non tornarvi.
I primi profughi polacchi, fra loro soprattutto donne e bambini, approdano in Africa orientale nell'ottobre del 1942. Sbarcano nel porto keniota di Mombasa e in quello mozambicano di Beira a bordo di navi salpate dal porto persiano di Pahlavi, nell’odierno Iran. In quella città, oggi chiamata Bandar-e Anzali, giunsero tra marzo e agosto di quell’anno 115mila ex prigionieri polacchi. Erano stati liberati dai gulag l’anno prima, dopo l’attacco nazista nei confronti dell’Unione Sovietica. Il Cremlino voleva mandarli in prima linea, ma alla fine cedette alle pressioni della Gran Bretagna, lasciando gli ex prigionieri sotto la tutela di quest’ultima. Giunti in Persia, 78mila polacchi scelsero di entrare nel Secondo corpo d’armata del generale Władysław Anders, inquadrato sotto il comando britannico. Soldati protagonisti fra il febbraio 1944 e l'aprile 1945 della campagna alleata in Italia e che liberarono Ancona e Bologna, oltre a sfondare le linee tedesche a Montecassino.
In Persia però rimangono 37mila civili, tra cui 14mila bambini. Ripareranno come profughi in altri Paesi, con il supporto dei britannici, della United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra) e della Croce Rossa americana. Alcuni vanno in Libano e Palestina, altri in Messico e India, qualcuno in Nuova Zelanda. E 18mila di loro finiscono in Africa orientale, dove si allestiscono 22 campi per accoglierli. Cinque si trovano in Kenya: a Rongai, presso Nairobi, Manira, Makindu, Nairobi e Nyali. Nella vicina Tanganica, l'odierna Tanzania, i campi sono sei: Tengeru, Kigoma, Kidugala, Ifunda, Kondoa e Morogoro. Più a nord, in Uganda, sorgono altri due campi: Koja, sulle sponde del lago Vittoria, e Nyabeya-Masindi, non lontano dal lago Alberto. Altri insediamenti sorgono nelle allora Nord e Sud Rhodesia, oggi Zambia e Zimbabwe, mentre la località sudafricana di Oudtshoorn ospita 500 orfani polacchi.
Henryk Szostak, classe 1936, risiede in California ed è un pensionato statunitense che gira il mondo con la moglie. È nato a Dąbrowa, località oggi bielorussa ma polacca prima della Seconda Guerra Mondiale, ed è stato deportato in Siberia dai sovietici con l'intera famiglia. Fra l'autunno del 1942 e la primavera del 1948 ha vissuto nel campo di Tengeru, nell'allora Tanganica. «La nostra priorità era lasciare l'Urss. Tuttavia, la nostra famiglia fu separata e alcuni parenti finirono in Rhodesia, altri in Messico. Persino mio fratello maggiore Czesław venne mandato in Uganda, e solo grazie alle proteste di nostra madre ci raggiunse in Tanganica», racconta Szostak a Centrum Report.
I primi giorni in Africa orientale non sono facili. «Quando arrivammo a Tengeru eravamo ancora denutriti, avevamo pochi vestiti e minimi effetti personali», ricorda Szostak. In un primo momento, i polacchi tirano avanti grazie a cibo, vestiti e medicine forniti da britannici e americani, ma presto iniziano a organizzarsi. Coltivano ananas, banane, mais, pomodori e girasoli mentre la presenza di polli e maiali consente loro di variare la propria dieta. Per vincere la nostalgia di casa, negli orti accanto alle proprie capanne i polacchi piantano anche vegetali a loro cari quali patate, cavoli, piselli, soia e rape. Barattano inoltre con Masai e popolazioni locali scarpe o vestiti per generi di prima necessità.
Tengeru ha seimila abitanti, mentre Nyabeya e Koja ne contano tremila ciascuno. Nei villaggi polacchi le abitazioni sono umili casupole dai muri di fango o argilla con tetti di paglia o di foglie di banano e prive di elettricità e acqua corrente. I campi sono incastonati in una natura incontaminata, ma ostile, in cui malaria e dissenteria affliggono i rifugiati. Malgrado tutto, la vita in Africa – ricorda Szostak – aveva un grande vantaggio rispetto a quella in Siberia. «Non esistevano muri o recinti attorno al nostro villaggio e potevamo godere della più completa libertà di movimento». Basta un singolo ascari britannico a controllare l'ingresso di Tengeru.
Czesław Szostak In Bicicletta a Tengeru.
Le donne del campo (la madre dei fratelli Szostak è la terza da sinistra)
La quarta elementare di Tengeru, marzo 1947.
Alcuni campi divengono vere e proprie cittadine. A Tengeru, ad esempio, vi sono scuole dalla materna alle superiori, una chiesa cattolica e una ortodossa, un ospedale, una stazione radio, tre centri ricreativi, un forno, un campo da calcio e persino un teatro all'aria aperta. Gli insediamenti sono co-amministrati da Unrra e britannici con questi ultimi che vi stabiliscono propri ex ufficiali in pensione come comandanti. Su alcuni campi sventola la bandiera polacca, mentre a Tengeru una siepe sempreverde forma la scritta Poland 1942. Nel campo di Tengeru vivono inoltre centinaia di orfani dai due ai 17 anni anche loro deportati in Siberia, transitati dalla Persia e in alcuni casi persino dall'India. A prendersene cura sono suore e sacerdoti come padre Lucjan Krolikowski che ha descritto le vicende di questi giovani dalla Siberia in Canada in Stolen Childhood: A Saga of Polish War Children (Infanzia rubata: saga dei bambini polacchi rifugiati di guerra).
In Africa i profughi conducono un'esistenza spartana, ma via via più strutturata dal punto di vista sociale e culturale, rallegrata dall'inebriante consapevolezza di essere liberi. Le comunità celebrano il Natale e la Pasqua realizzando decorazioni fai da te e arrostendo salsicce. I bambini frequentano la scuola e il catechismo, leggono fumetti, esplorano il territorio circostante facendo lunghe camminate, nuotano nei laghi, vanno in bicicletta, giocano a calcio. Gruppi cattolici, scout e Ymca organizzano eventi e attività ricreative.
A Tengeru si forma inoltre un gruppo teatrale composto da 80 persone che viaggia sino agli insediamenti polacchi in Kenya, Uganda e Rhodesia. Padre Krolikowski scrive che gli spettacoli messi in scena dai giovani polacchi sono elogiati dalla stampa africana e accompagnati da un'orchestra italiana. Szostak spiega l'origine di questo particolare sodalizio artistico: «Nei pressi di Tengeru c'era un campo per prigionieri italiani. Non sono sicuro se fosse recintato o sorvegliato», aggiunge, «ma ricordo bene che al termine della guerra gli italiani si muovevano liberamente nel nostro insediamento. Alcuni facevano lavoretti di riparazione o manutenzione, altri frequentavano polacche che avevano perso mariti o fidanzati in Siberia o durante il conflitto».
Nel libro Gli italiani in Tanzania ieri e oggi di Stefano Baldi si precisa che «i connazionali catturati nel 1941 al momento dell'occupazione dell'Africa Orientale Italiana (…) furono tenuti in campi di internamento presenti nel territorio del Tanganica». Questi campi sono due e si trovano a Tabora e ad Arusha, nei pressi di Tengeru. Vi vivono circa tremila italiani, sia civili che militari, ma quasi tutti uomini. I britannici adoperano i prigionieri come manodopera agricola, ma gli italiani svolgono anche lavori artigianali e realizzano violini per la propria orchestra. Non è loro permesso lavorare fuori dai campi di internamento, ma a guerra conclusa il divieto verrà revocato ed è così che gli italiani di Arusha entrano in contatto con i polacchi di Tengeru.
In Africa orientale i rifugiati polacchi sono lontani dal resto del mondo, ma si tengono aggiornati su quanto accade in madrepatria e sulle sorti del conflitto. «A Tengeru la stazione radio ci permetteva di seguire gli avvenimenti in Europa», rammenta Szostak, «e ci mantenevamo in contatto con i soldati del Secondo corpo polacco in Italia, inviandogli lettere e foto delle nostre famiglie». In Tanganica nel 1944 si seguono con trepidazione il fallimento dell'Insurrezione di Varsavia e la vittoriosa battaglia di Montecassino, in cui decine di padri, mariti e fidanzati dei rifugiati perdono la vita. Più difficile, invece, si rivela mantenere contatti costanti con le altre decine di migliaia di ex deportati polacchi presenti in Africa e altrove.
A partire dal 1948, i campi polacchi in Africa passano sotto l'egida dell'International Refugee Organization (Iro) una nuova agenzia dell'Onu creata per fare fronte all'emergenza profughi del dopoguerra e che viene sciolta nel 1952. Sono proprio i suoi ufficiali a entrare in contatto con i governi di molti Paesi, Polonia inclusa, per decidere le sorti delle famiglie e degli orfani di Tengeru, e dare loro una meta post-bellica. L'insediamento in Tanganica comincia così a spopolarsi e viene chiuso fra il 1949 e il 1950.
L'ultimo capitolo di questa storia è anche quello per molti più doloroso: il mancato ritorno a casa. La fine della guerra vede una Polonia semidistrutta che attraversa un complicato periodo di transizione politica. Nelle controverse elezioni del gennaio 1947 trionfano i comunisti di Bierut con l'80% dei voti. Le nuove autorità socialiste mirano a fare rientrare in patria migliaia di profughi polacchi sparsi nel mondo, sia per motivi d'immagine che per accelerare la ricostruzione del Paese. Ai rifugiati vengono offerti terreni agricoli in ex regioni tedesche, acquisite dalla Polonia dopo la guerra, come forma di compensazione per la perdita dei territori orientali sottratti dall’Urss nel 1939. Questi ultimi non saranno mai più restituiti.
La proposta lascia molti ex deportati insoddisfatti. «I terreni offertici avevano un'estensione molto minore di quelli che avevamo perduto e così la mia famiglia e molte altre rifiutarono», ricorda Szostak secondo il quale c'era un'altra decisiva ragione per declinare l'invito: «Avevamo già sofferto abbastanza per mano dei comunisti in Siberia e non volevamo vivere in una Polonia controllata dai sovietici».
La risposta del governo socialista di Varsavia a questo rifiuto non è diplomatica. Migliaia di ex deportati vedono la propria cittadinanza polacca revocata, e diventano così rifugiati apolidi. Solo grazie alle tutele concesse dal passaporto Nansen, concesso a rifugiati apolidi, queste persone riescono in seguito a emigrare e richiedere altre cittadinanze. Szostak ottiene quella statunitense.
Altrettanto complessa è la situazione di migliaia di orfani polacchi, centinaia dei quali a Tengeru. Stando ai documenti consultati da Lynne Taylor, professoressa di Storia all'università canadese di Waterloo, gli orfani presenti nel campo sono 143. Il più piccolo ha appena due anni ed è nato in Africa. Altri, che erano minorenni al momento dell’arrivo a Tengeru, sono diventati maggiorenni. «L’Iro diede ai ragazzi polacchi la possibilità di tornare in madrepatria facendoli incontrare con un ufficiale per il rimpatrio inviato da Varsavia. Tuttavia, nessuno degli orfani si mostrò interessato. Non avevano alcuna intenzione di tornare in una Polonia divenuta comunista dopo quello che avevano dovuto subire dall'Unione Sovietica», spiega a Centrum Report la professoressa Taylor.
È padre Krolikowski a ricostruire le peripezie affrontate da questi orfani dal Tanganica sino in Canada. Lasciata l'Africa a bordo della SS Gerusalemme, ex nave italiana del Lloyd Triestino, nel giugno del 1949 i ragazzi arrivano a un campo dell'Iro a Salerno. Da lì, raggiungono il porto tedesco di Brema per salpare alla volta di Halifax, in Canada, e poi approdare a Montreal.
Fra il 1947 e il 1950, la stragrande maggioranza dei polacchi abbandona l'Africa e quasi nessuno rientra in Polonia. Le famiglie si trasferiscono in Argentina, Australia, Canada, Regno Unito o Stati Uniti per cominciarvi una nuova vita. Alcuni profughi decidono di rimanere. Fra di loro vi è chi resterà in Africa per sempre, come testimoniano le date sulle lapidi del piccolo e curato cimitero dei rifugiati polacchi a Tengeru, che ospita 150 sepolture.
L'ultima croce reca la data del 18 marzo 2015 ed è quella di Edward Wojtowicz che è stato l'ultimo rifugiato polacco di Tengeru a restare in Africa, vivendo nella vicina Arusha per 70 anni. Con la sua scomparsa il compito di tramandare la storia dei rifugiati polacchi in Africa orientale passa a uomini e donne che oggi vivono altrove, come Henryk Szostak, e ai loro eredi. Perché come recita un'iscrizione su una delle lapidi del cimitero polacco di Tengeru: «Jeśli zapomnę o nich, Ty, Boże na niebie, zapomnij o mnie». È una citazione tratta da Gli avi del poeta romantico polacco Adam Mickiewicz e significa «se mi dimenticherò di loro – allora tu, Dio nei cieli, dimenticati di me».