Fuga per la vittoria / 2
di Salvatore Greco
Indian Wells, California, marzo 2010. Sui campi dell’omonimo circolo di tennis c’è l’evento che scuote la quotidianità oziosa dei residenti locali, perlopiù anziani benestanti. Il torneo di Indian Wells infatti è uno dei più antichi e più prestigiosi dell’era Slam del tennis. Quell’anno in finale c’è una veterana come Jelena Jankovic di fronte a una stella sul punto di iniziare a brillare. È Caroline Wozniacki, nata a Odense, Danimarca, ha 20 anni ancora da compiere e si sta facendo conoscere per il suo tennis solido e atletico. A fine anno sarà la numero uno del mondo, ma quel giorno la sua avversaria sembra irresistibile.
Una regola della Wta, il circuito del tennis femminile, permette alle tenniste un consulto tecnico con il proprio allenatore durante i time-out, e la Wozniacki ne fa uso alla prima occasione utile. Il coach di Caroline è suo padre Piotr, che scende fino alla panchina e i microfoni lo catturano mentre spiega alla figlia come rispondere ai fendenti di diritto della Jankovic che la stanno mandando fuori campo. La cosa curiosa, che qualcuno nota, è che i due non parlano danese ma polacco. Come il cognome da solo tradisce, infatti, Caroline Wozniacki, scende in campo come atleta danese, ma è figlia di emigrati polacchi.
Il suo è un destino condiviso da molti altri nomi di spicco dello sport. Le storie di questi atleti, nati o cresciuti fuori dal Paese dei propri genitori, sono un fenomeno interessante e complementare a quello, raccontato qualche settimana fa, dei loro colleghi di una generazione precedente che hanno scelto da soli la via dell’emigrazione. Sono storie di legami spezzati e riallacciati, o anche di legami mai sentiti, diluiti in sentimenti collettivi più forti. E ci sono anche storie che di legami non hanno alcun sentore, ma descrivono uno dei tipi sociologici più raccontati anche in letteratura: quello di un genitore in emigrazione che riversa sul figlio il rammarico delle occasioni che non ha potuto cogliere. La scelta è caduta su quattro storie, a loro modo significative su questi percorsi. Per raccontare il Novecento dell’Europa Centrale anche dai suoi effetti apparentemente più distanti.
Klose e Podolski tra Slesia e Germania
Rispettivamente classe 1978 e 1985, i due calciatori tedeschi, campioni del mondo con la loro nazionale nel 2014, hanno due vicende relativamente simili, entrambi figli della complessa storia della Slesia, entrambi nati cittadini polacchi.
Mirosław Klose nasce a Opole, figlio di un calciatore professionista, Josef Klose, e di una giocatrice di pallamano, Barbara Jeż. Josif Klose, o Józef con la versione polonizzata del suo nome, è un calciatore di buon livello che gioca quasi tutta la carriera nella squadra della sua città fino a quando, a 34 anni, nel 1978 coglie l’occasione della vita e si trasferisce all’Auxerre portando con sé tutta la famiglia in Francia, appena in tempo per evitare le paure e le privazioni della legge marziale. Tornano a Opole nel 1985, quando la carriera di Josif è finita, ma ci restano solo un paio di anni. Nel 1987 infatti i Klose decidono di chiedere cittadinanza tedesca come aussiedler, ovvero reimmigrati, approfittando della legge tedesca che offre un percorso facilitato per la cittadinanza ai nati nella Germania tra le guerre ritrovatisi dentro altri confini. È così che i Klose si trasferiscono vicino a Kaiserslautern, l’undicenne Mirosław diventa Miroslav e inizia la sua nuova vita e carriera. Dopo i primi anni a farsi le ossa in squadre minori, nel 1999 approda al Kaiserslautern, allora una delle squadre più forti della Bundesliga, dove diventa presto titolare e si guadagna anche un posto in nazionale, che onora da subito segnando il primo gol alla prima apparizione contro l’Albania nel 2001.
Dal 2002 in poi la sua storia fa parte di quella del calcio internazionale ai massimi livelli: vicecapocannoniere e vicecampione del mondo con la Germania al mondiale nippo-coreano del 2002, terzo posto al mondiale di casa del 2006 e poi finalmente la conquista della coppa del mondo in Brasile nel 2014, ciliegina sulla torta di una strepitosa carriera. Nonostante gli anni vissuti in Germania e le apparizioni con la maglia della nazionale tedesca, Klose ha dichiarato più volte di sentirsi vicino alla sua vecchia patria: in un’intervista rilasciata allo Spiegel nel 2007 ha dichiarato di parlare in polacco a casa con i figli, e l’anno scorso è tornato a Opole a ritirare la cittadinanza onoraria che il Comune ha voluto assegnargli.
Lukas Podolski nasce a Gliwice, in bassa Slesia, e si trasferisce con la famiglia in Germania quando ha appena due anni, nel 1987. A differenza di quella di Klose, la famiglia Podolski emigra per motivi meramente economici e mantiene da sempre rapporti con la madrepatria. Lo stesso Lukas, quando inizia a giocare a calcio nella nazionale tedesca under 17, non sa ancora se sarà quella che indosserà per tutta la carriera. Le fonti su questo argomento sono un po’ confuse, è accertato il tentativo da parte del tecnico della Polonia di quegli anni, Tomasz Kłos, di convincere il calciatore, ma pare siano mancati gli appoggi giusti a livello federale. Podolski sceglie la Germania, con la quale fa il suo esordio nel 2004, nell’ultima amichevole prima degli europei giocata - e persa- a Kaiserslautern contro l’Ungheria. Con la maglia della nazionale tedesca disputa 130 partite in totale segnando 49 gol, due dei quali durante la partita Germania-Polonia valida per il gruppo B degli Europei del 2008 di Austria e Svizzera.
Scelta di opportunità o meno, Podolski ha più volte dichiarato di voler tornare in Polonia a fine carriera per giocare al Ruch Chorzów, la squadra simbolo dei polacchi di Slesia, oggi in declino, di cui si dichiara da tempo un grande tifoso. Vedremo se lo farà. A oggi, per chi cercasse le sue tracce, Lukas Podolski è il capitano del club giapponese del Vissel Kobe, buen retiro di altri due recenti campioni del mondo: David Villa e Andrés Iniesta.
Gli Stastny, slovacchi del Quebec
Esiste un legame curioso tra il Canada da un lato e Repubblica Ceca e Slovacchia dall’altro, ed è dovuto all’hockey sul ghiaccio. Non serve essere esperti di questo sport per sapere, o anche solo immaginare, quanto sia popolare in Canada. Non molti tra i profani sanno però quanto sia diffuso e praticato nell’ex-Cecoslovacchia, a oggi forse l’area con maggiore tradizione hockeystica tra quelle lontane dal circolo polare artico.
Peter Šťastný, di Bratislava, oggi slovacco, ieri cecoslovacco, è stato uno dei primi europei a giocare in Canada, e anche il primo europeo a fare più di mille punti in Nhl e a guadagnarsi un posto nella Hockey Hall of Fame. Il suo ritorno in Slovacchia dopo il ritiro, e una carriera politica con due mandati da europarlamentare, non hanno influito sulla vita dei figli, che sono rimasti in Canada e, in cerca di un secondo passaporto, hanno optato per quello statunitense. Inoltre, come spesso accade nell’hockey, hanno seguito le orme paterne nello sport, senza tuttavia raggiungere gli stessi risultati. Paul e suo fratello minore Yan sono entrambi giocatori di hockey professionisti. Il loro cognome, depurato da ogni segno diacritico, è stato reso il più digeribile possibile per le autorità anglofone e francofone, e i palazzetti del ghiaccio dell’Nhl li conoscono bene. Oggi Paul gioca nel più surreale degli scenari dell’hockey immaginabili: è un tesserato dei Vegas Golden Nights, squadra di hockey di Las Vegas che gioca le partite di casa a una manciata di chilometri dal deserto del Nevada.
Il destino di emigrati di seconda generazione degli Stastny è molto netto, e niente sembra far pensare a un loro desiderio di tornare in Slovacchia come ha fatto il padre. In un’intervista rilasciata a USA Today qualche anno fa, Paul Stastny ha dichiarato che i suoi valori sono “religione, istruzione e famiglia”. Difficile immaginare una dichiarazione più americana di così.
Timea Bacsinszky, tennista suo malgrado
“Visto che mio padre era il mio coach da bambina non potevo scegliere se giocare o non giocare. Lui voleva vivere il suo sogno per mio tramite e, purtroppo per me, giocavo piuttosto bene”. Con queste parole, tratte da un’intervista rilasciata al New York Times, Timea Bacsinszky, tennista svizzera numero 98 del mondo, racconta il suo rapporto con il tennis all’inizio della sua carriera. Un rapporto tossico, iniziato a Losanna, nella Svizzera francofona, dove la famiglia Bacsinszky si è trasferita da anni.
I Bacsinszky sono ungheresi anche se il passaporto di Piotr, nativo della Transilvania, è romeno. La Svizzera per loro è un sogno realizzato di borghesia e benessere, che per il padre di Timea è evidentemente incompiuto. Piotr Bacsinszky è un maestro di tennis e allenatore professionista. Quando vede che la figlia Timea ha del talento, la porta a giocare con continuità e la esorta a diventare professionista. Piotr Bacsinszky, da giocatore mancato, diventa un padre-aguzzino. Non il primo, non l’ultimo.
Timea risponde ai suoi segnali, vince prestigiosi trofei under 14 ed è tra le migliori tenniste under 18 della sua generazione. Quando inizia a giocare nel tour raccoglie qualche risultato, buoni piazzamenti, vittorie sporadiche contro avversarie importanti, ma senza picchi particolari rispetto a quanto promesso. Fino al 2011 quando, a 22 anni, Timea subisce due gravi infortuni in serie, una frattura del piede e un problema muscolare alla schiena, che la tengono lontana dai campi per mesi interi. Perde così molti punti e deve ripartire dal basso. Ci prova per un po’, ma la motivazione venuta dai desideri del padre viene sempre più a mancare e nel 2013 il meccanismo si rompe del tutto. Timea entra in analisi, decide di ritirarsi e, su suggerimento della sua analista, va a lavorare come aiuto-cuoca in un resort sulle Alpi, il più lontano possibile dal tennis. Durante quel periodo realizza di non avere mai amato giocare a tennis e di averlo fatto per accontentare il padre e allontanare lo spettro del divorzio dei genitori, poi avvenuto.
L’isolamento di Timea dal tennis però dura poco, un giorno di aprile del 2013, mentre è a casa della madre riceve una mail dall’organizzazione del Roland Garros. Lo Slam parigino la convoca per il torneo di qualificazione al tabellone principale. Si tratta di un’email automatica, che Timea riceve per la sua posizione di classifica che non è stata ancora cancellata, ma a lei sembra un piccolo segno del destino. Prende le racchette, che teneva a casa della madre sempre su suggerimento dell’analista, sale in auto e arriva a Parigi. In campo contro la canadese Sharon Fichman perde 6-3 7-6, ma è la sconfitta più dolce della carriera. Improvvisamente ritrova il piacere di giocare a tennis. Il resto è storia recente del tennis: nel 2015 vince due tornei di fila sul cemento messicano. arriva in finale al prestigioso torneo di Pechino a dicembre e fa il suo migliore risultato Slam in carriera con la semifinale al Roland Garros. A maggio del 2016 fa segnare il suo best ranking, al numero nove della classifica mondiale. Le ultime due stagioni si sono rivelate deludenti, ma Timea continua a giocare a tennis, consapevole di farlo per sé stessa e con la memoria che la volontà e la gioia di giocare l’hanno portata fra le prime dieci al mondo.
Fuga per la vittoria / 1: leggi il primo dei due longform dedicati agli atleti dell’Europa Centrale.