Fuga per la vittoria / 1
di Salvatore Greco
Il modo in cui oggi guardiamo all’Europa Centrale, e lo stesso sforzo che facciamo nel definirla tale, è legato a doppio filo al destino dei Paesi di questa regione durante il XX secolo. Arrivati tardi sulla scena internazionale, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia hanno poi servito un ruolo ingrato prima nelle ambizioni espansionistiche del Terzo Reich e poi nel ruolo di satelliti dell’Unione Sovietica. Un ruolo voluto dalla geopolitica e dalle forze della storia, molto meno dagli abitanti di questi Paesi che nei decenni hanno conosciuto il sogno e il dramma dell’emigrazione. Emigrazione che, prima la guerra e poi l’ossessione tutta novecentesca per le frontiere e le cortine, hanno reso difficile oltre che sul piano simbolico anche su quello pratico. Pochi, specie nel mondo socialista, avevano la possibilità di espatriare anche solo per poco tempo: alti papaveri di partito, diplomatici, artisti, sportivi
Gli sportivi in particolare, forti di un riconoscimento all’estero dovuto ai propri risultati e alla possibilità di viaggiare in occidente, hanno creato nel tempo una piccola tradizione di fughe, dalla morte certa per la guerra o dal socialismo reale e dalle sue inconfessabili imperfezioni. Una tradizione fatta di storie drammatiche, a volte dai caratteri spionistici, che vale forse la pena raccontare.
Dariusz Michalczewski, la tigre di Danzica
A Danzica nel 1968 ci sono molte cose a cui pensare. Scioperi, disordini, assemblee. Per la famiglia Michalczewski c’è anche da registrare la nascita del piccolo Dariusz. È un ragazzino come tanti, non particolarmente dotato per la scuola, che un giorno un fratello della madre porta in una palestra locale per provare uno sport molto di moda in quegli anni: il pugilato. È il 1980, vent’anni prima a Roma un giovane Cassius Clay aveva conquistato l’oro olimpico nei pesi massimi superando in finale lo slesiano Zbigniew Pietrzykowski. Due decenni non sono pochi, ma l’onda lunga del pugilato polacco è ancora viva e il giovane Michalczewski c’è dentro fino al collo. Diventa campione polacco juniores dei superleggeri nel 1985 e due anni dopo conquista lo stesso titolo tra gli adulti.
È un talento della boxe polacca, uno dei più promettenti, e nel 1988 la federazione lo convoca per una trasferta in Germania Ovest ad aprile. Il ritorno è previsto per il 24 dello stesso mese. La squadra si raduna, ma Michalczewski manca all’appello. Ha deciso di restare in Germania. Non è il primo e non sarà l’ultimo a fare questa scelta. La reazione della federazione del resto è inappellabile: squalificato a vita. A luglio dello stesso anno la Repubblica federale tedesca gli riconosce la nazionalità e Michalczewski continua la sua carriera di pugile da socio della polisportiva del Bayer Leverkusen. Con la maglia della nazionale di Bonn partecipa agli europei di Göteborg nel 1991 e conquista l’oro nei mediomassimi. Sul podio risuona Das Lied der Deutschen, l’inno dei tedeschi dell’ovest.
Quell’anno stesso decide il passaggio al professionismo, firma un contratto con un’agenzia di Amburgo, prende il soprannome di Tygrys, la tigre, e combatte per dodici anni con un bilancio di 48 vittorie e 2 sconfitte e la cintura di campione Wbo dei mediomassimi indossata per nove anni.
Nel 2002, Michalczewski prende una decisione importante. E inaspettata, in un certo senso. Parla con i suoi agenti ed esprime un desiderio chiaro: tornare in Polonia per combattere nel suo Paese. Si trova uno sfidante in Joey DeGrandis, pugile italoamericano nativo di Boston. Il teatro dell’incontro è Danzica, la città di Michalczewski, che ha un’altra richiesta per i suoi agenti: ad accompagnarlo sul ring sia l’inno polacco e non quello tedesco, perché lui si sente polacco e vuole combattere da polacco nella sua città. Lo ottiene, l’incontro si fa, il pubblico mormora e fischia un po’, il combattimento dura anche poco. Michalczewski vince in due riprese per ko. Ma non è del tutto soddisfatto.
Oggi Michalczewski vive di nuovo in Polonia, ha lanciato sul mercato un energy drink chiamato Tiger come il suo nome di battaglia ed è attivo a livello sociale con una onlus, Równe Szanse (Pari opportunità), che si occupa di sostenere giovani sportivi e nel 2014 ha espresso sostegno pubblico a una coraggiosa campagna contro l’omofobia Nel 2010, intervistato da Dariusz Jaroń di Onest Sport, ha dichiarato di non essersi pentito della fuga e che sarebbe pronto a rifarlo «[Se fossi rimasto] sarei finito a boxare per qualche anno in prima o in seconda categoria fino alla chiusura dei club e poi sarei andato a lavorare nei cantieri navali o a rubare automobili. Di che parliamo?!».
Martina Navrátilová, l’American Dream realizzato
Vincenzo Martucci, penna tennistica della Gazzetta dello Sport, non ha paura dei paragoni e in uno speciale della serie “I grandi del tennis ai raggi X” inizia a parlare di lei con le parole “Come Diego Maradona”. Non è facile dire se il confronto con El Pibe de Oro renda bene la figura sportiva e umana di Martina Navrátilová. Di certo la tennista cecoslovacca, poi diventata cittadina americana, ha solcato la storia della sua carriera tra il campo e fuori in maniera simile al campione argentino, con le dovute proporzioni. Nata a Praga nel 1956 nella Cecoslovacchia socialista, Martina Navrátilová si chiama prima Martina Šubertová e prende l’attuale cognome dal patrigno, secondo marito della madre e suo primo insegnante di tennis Miroslav Navrátil.
Tutte le storie di tennisti hanno aneddoti fondativi molto simili, tutti parlano di un rapporto precoce con la racchetta e tante palline mandate a rimbalzare contro un muro di casa. Quella della Navrátilová non fa eccezione, fatto sta che già quando Martina ha 15 anni dà segni di talento fuori dal comune conquistando i campionati nazionali cecoslovacchi in singolare. E l’anno dopo fa il suo primo viaggio negli Stati Uniti, per competere nel tour professionistico della Usta, antenato dell’attuale Wta. È in quella cornice che nel 1973 arriva ad Akron, Ohio, dove si gioca un torneo indoor sul veloce. Di fronte a lei c’è una tennista di due anni più grande, Chris Evert da Fort Lauderdale, Florida. Le due non lo sanno ancora, ma quel primo loro incontro (finito 7-6 6-3 per la Evert) sarà solo il primo di una rivalità leggendaria durata quindici anni e consumata in ottanta incroci di racchette, di cui quattordici in finale a un torneo del Grande Slam. Ma quella Martina all’epoca è solo una ragazzina cecoslovacca incantata e incuriosita dall’America. Ai suoi occhi è un Paese totalmente diverso da quello che le hanno sempre raccontato. «Per la prima volta riuscii a vedere l’America non alla tv e, comunque, senza il filtro dell’educazione e della propaganda comunista, e mi sentii a mio agio» avrebbe dichiarato poi, come riporta sempre Martucci. Quello che è certo è che la Navrátilová prende il volo. Il suo braccio mancino e il suo gioco d’attacco la portano, a 17 anni, a vincere il suo primo torneo professionistico in singolo a Orlando, il primo di 167 titoli, record assoluto del tennis femminile nell’era Open.
Martina è un portento, un biglietto da visita per la federazione cecoslovacca che la sfoggia con orgoglio e la tiene al guinzaglio allo stesso tempo. I visti per l’estero che le vengono concessi sono al massimo trimestrali, le presenze nel tour della tennista sono al singhiozzo, le ambizioni delle autorità boeme non corrispondono a quelle della tennista. Dichiarerà Navrátilová «Voglio diventare la numero uno del mondo, e per provarci devo essere in grado di giocare i tornei più importanti, mentre alle autorità cecoslovacche basta che sia la numero uno del Paese, la bandiera dell’atleta dell’Est».
Nel 1975 Martina Navrátilová ha 18 anni e affronta una stagione strepitosa. Arriva in finale all’Australian Open e al Roland Garros, perdendole entrambe. A maggio di quell’anno porta la Cecoslovacchia a vincere la Fed Cup, la versione femminile della Davis, superando in finale l’Australia e regalando al suo Paese la prima vittoria nella sua storia. Ma Martina vuole gli Slam, vuole superare Chris Evert sul campo e sa che deve fare di più.
A fine agosto di quell’anno Navrátilová è a Forest Hills, sui campi del West Side Tennis Club, ricoperti da terra verde, l’eccentrica superficie solo americana che ha fatto da base agli US Open dal 1975 al 1978. Navratilova gioca un buon torneo, arriva in semifinale e incontra -per la quattordicesima volta in carriera- Chris Evert. L’americana l’ha avuta vinta in undici delle tredici occasioni precedenti, compresa la finale del Roland Garros di qualche mese prima. E anche a New York la musica non cambia, la tennista della Florida regola la rivale con un 6-4 6-4 che la porterà in finale e poi al titolo.
Dopo la sconfitta Martina rimane a New York e prende una decisione. Per la sua vita, per la sua carriera, per le sue ambizioni. Si presenta alla porta degli uffici newyorkesi dell’Immigration and Naturalization Service per chiedere asilo politico. E lo ottiene. La reazione dalla Cecoslovacchia è, naturalmente, di sdegno e di rabbia: solo parole di rifiuto per un’atleta che ha preferito le comodità del capitalismo e i soldi del professionismo alla gloria della patria. Ma per Navrátilová sembra la scelta migliore. Riceve la sua green card e può finalmente stabilirsi negli Stati Uniti, anche se solo da apolide, perlomeno fino al 1981. Il passaggio però non è dei più semplici. L’America le piomba addosso con tutti i suoi eccessi, la Navrátilová mette su qualche chilo subendo le ironie dei commentatori e anche le sconfitte sul campo. Il 1976, il primo anno di professionismo da apolide in terra yankee, è mediocre, e lo salvano solo alcuni titoli in doppio. Per fortuna dell’atleta, le arrivano il sostegno inaspettato di alcune figure importanti dello sport americano, a partire dalla leggendaria campionessa e agguerrita femminista Billy-Jean King e arrivando alla stella del basket Nancy Lieberman che rivoluziona la carriera di Navrátilová. Negli anni Settanta il tennis professionistico è ancora giovane, si privilegia ancora l’eleganza del gesto all’atletismo e Chris Evert così femminile, elegante e sinuosa, ne è il simbolo perfetto. Navrátilová è forse la prima tra le donne a portare un contributo atletico massiccio alla storia del suo sport. Diventa una tennista aggressiva, potente, votata all’attacco. I suoi muscoli potenti diventano iconici quanto i suoi occhiali spessi. Il suo tennis diventa una macchina da guerra perfetta da giocare sull’erba, dove vince chi osa. E Navrátilová osa, nel 1978, quando incontra di nuovo di fronte a sé Chris Evert prima nella finale del torneo minore di Eastbourne e poi sul centrale di Wimbledon. E la sconfigge due volte, aprendo la strada a un inseguimento che poi sarebbe diventato sorpasso molti match e molti anni dopo.
Con il primo major in mano, la Navrátilová prende coraggio e inizia la carriera strepitosa che gli appassionati conoscono. Nove volte campionessa a Wimbledon, quattro agli US Open, tre agli Australian Open e due volte al Roland Garros riuscendo nell’impresa del Career Grand Slam sfuggito a tanti altri grandi tennisti della storia. Uno su tutti: John McEnroe.
Navrátilová diventerà famosa anche fuori dal campo, per il proprio coraggioso coming out sulla sua omosessualità e per chiare prese di posizione su temi sociali e politici, di fronte alle quali non si è mai tirata indietro.
Nel 2006, dopo essersi presa il lusso di vincere l’ennesimo Slam in doppio misto a New York, richiede e ottiene la cittadinanza ceca. Sono gli anni della presidenza di George W. Bush agli Stati Uniti e della guerra in Iraq, contro i quali la Navrátilová si schiera nettamente, ma la scelta di riavere il passaporto ceco -dichiara- non è in nessun modo di natura politica, ma solo simbolica e sentimentale.
László Bellák, o di come un ebreo ungherese dominò il tennis tavolo
La storia e la leggenda si mischiano sempre un po’ quando si va a caccia di miti fondativi. Quello del tennis tavolo risale alla fine del XIX secolo e vede coinvolto un elettricista britannico di nome James Devonshire, autore del primo brevetto registrato a nome “Table tennis”. Annus domini: 1885. Perché da simpatico intrattenimento, il ping pong diventi uno sport ufficiale, con il battesimo olimpico, bisogna aspettare 103 anni e i Giochi di Seoul. Nel corso di questo secolo lungo, il tennis tavolo ha conosciuto una storia a metà tra lo sport e l’intrattenimento trascinando sulla scena personaggi di varia natura. Uno di loro, Fred Perry, è diventato leggenda nell’altro tennis, quello vero e proprio, vincendo sei tornei dello Slam in singolare e quattro coppe Davis, ma il tennis tavolo è stato il suo primo amore e miniera di medaglie mondiali alla fine degli anni ’20.
Un altro personaggio, un po’ più giovane di Perry, è quello che ci interessa di più. Nasce a Budapest il 12 febbraio del 1911, si chiama László Bellák e se qualcuno gli chiedesse la confessione religiosa risponderebbe: ebraica. Un ebreo ungherese nato nel 1911. Non serve soffermarsi troppo per capire che il suo destino quasi segnato sarà un appuntamento con la storia e le sue pagine più oscure. Fatto sta che Bellák da giovane scopre questa diavoleria moderna che è il tennis tavolo quando per il suo tredicesimo compleanno riceve in regalo dal padre un set da gioco completo. Tra le guerre in Ungheria è una trovata molto popolare, nella borghesia di Budapest lo provano tutti. Bellák inizia a onorarlo a casa sua, insieme al suo amico Victor Barna, futuro pluricampione del mondo anche lui, e diventa presto tutt’uno con il gioco. Entra nella nazionale ungherese e a 17 anni conquista per la prima di sei volte la Swaything Cup, il campionato del mondo di tennis tavolo a squadre. Sono anni in cui l’Ungheria è la nazione da battere nella specialità e i tennistavolisti magiari vengono invitati negli Stati Uniti per una tournée dimostrativa nel 1936. Bellák assieme ai suoi amici è una piccola stella nel mondo di una specialità di nicchia e i tre ungheresi vengono presentati come i tre moschettieri del tennis tavolo. Pian pian piano la passione per questo sport oltrepassa l’oceano contagiando gli americani e ben presto emerge una generazione di talenti in grado di confrontarsi con gli ungheresi. Nel frattempo, Budapest smette di essere una città familiare per Bellák e i suoi amici come lo è il resto della regione. I sentori si hanno già durante un incontro a Praga contro la nazionale cecoslovacca dove l’atmosfera è così densa di opposti nazionalismi da riversarsi sull’aggressività in campo. E poi non si può tacere del modo in cui il primo ministro di allora, l’ammiratore di Mussolini Gyula Gömbös, preparava il terreno all’adesione dell’Ungheria alle forze dell’Asse. L’antisemitismo in Ungheria si promuove nelle strade, nei palazzetti, e ora anche nelle stanze del potere. Chi può, fugge. Bellák è uno di questi, lo aiuta l’esempio di alcuni compagni che lo hanno preceduto e la fama che ha negli Stati Uniti già da prima. Arrivato in America quando la guerra sta per scoppiare, serve il suo nuovo Paese sul tavolo da ping pong (campione americano in singolo nel 1938 e altre tre volte in doppio) e anche come soldato. Nella Seconda guerra mondiale, il sergente Bellák dell’Esercito americano prende parte alla guerra in India e Birmania finendo per tre volte decorato.
Muore, vecchissimo, nel 2006 in Florida. Dal 1996 il suo nome è presente nella Tennis Table Hall of Fame e forse solo il conservatorismo del comitato olimpico internazionale gli ha impedito di aggiungere un titolo a cinque cerchi al suo ricco palmares. Di Bellák resta l’immagine perfettamente ambigua di un atleta-istrione, calato alla perfezione nel suo ruolo spezzato di professionista di uno sport trattato mai troppo sul serio. Le cronache degli appassionati, e della Tennis Table Hall of Fame, raccontano quello che un’epoca meno mediatica della nostra non ha riportato abbastanza. Un personaggio circense, forse anche un po’ sbruffone, consapevole di essere sì un atleta ma anche un uomo di cabaret, sia nei gesti con la racchetta in mano che in quelli fuori. Una vita di grandi soddisfazioni e vittorie, quasi tutte vissute lontano dall’Ungheria che gli aveva dato i natali.