Assalto all'Accademia
di Matteo Tacconi
Quando il governo ungherese, nel 2017, lanciò la propria campagna contro la Central European University (Ceu), l’ateneo fondato da George Soros a Budapest nel 1991, per costringerlo a lasciare la capitale, cosa riuscita (la Ceu si sta trasferendo a Vienna), Stefano Bottoni non credeva che anche il suo istituto, l’Accademia delle Scienze, sarebbe stato minacciato dal “revisionismo accademico” di Viktor Orbán. «Sarò sincero. Vivevamo nell’illusione che l’Accademia fosse troppo prestigiosa e troppo grande per essere messa alla corde. È stata fondata nel 1825, ha più di 5mila dipendenti, di cui oltre 3mila ricercatori. La Ceu ha 1500 studenti e una storia meno recente. Insomma, non ci sembrava possibile che anche noi saremmo a un certo punto finiti nel mirino del governo. Semplicemente, pensavamo che non potesse arrivare a tanto. Invece ha potuto», afferma Bottoni.
Il rischio che si paventa è l’Accademia delle Scienze venga smembrata; che i suoi istituti vengano assorbiti da centri universitari, o che vengano persino chiusi. Dal primo gennaio 2019 le sono stati bloccati tutti i fondi: non ci sono più nemmeno i soldi per pagare le bollette del riscaldamento e dell’elettricità. Sono garantiti gli stipendi dei dipendenti, ma in tanti temono di rimanere a spasso.
Oggi, martedì 12 febbraio, Stefano Bottoni – storico classe 1977, padre italiano, madre ungherese, ricercatore dell’Accademia dal 2009 – e i suoi colleghi organizzeranno nel primo pomeriggio una catena umana intorno alla sede dell’Accademia, situata sulla riva di Pest del Danubio, vicino al più famoso dei ponti di Budapest: quello delle Catene. «La manifestazione odierna è importante. Noi ricercatori ci rendiamo visibili, esprimiamo pubblicamente la nostra preoccupazione», spiega a Centrum Report Bottoni, raggiunto al telefono. E sempre oggi, dopo la catena umana, si terrà la riunione del Presidium. È il massimo organo nell’istituto, e dovrà decidere se andare allo scontro con il governo o se adeguarsi alla nuova e fino a poco tempo fa inimmaginabile realtà, cercando un compromesso.
La svolta c’è stata con l’ultima legge finanziaria. Fino a quel momento, la prassi era che il governo stanziasse i fondi annuali per la ricerca di cui l’Accademia necessitava, e che quest’ultima li gestisse autonomamente. La finanziaria ha invece sancito che questi fondi, unitamente alla competenza legale sulla ricerca, siano controllati direttamente dal ministero per l’Innovazione e la Ricerca, al cui vertice c’è László Palkovics, fedelissimo di Viktor Orbán. L’Accademia, non disponendo più di queste risorse, non può di fatto svolgere ricerca o programmarla, né partecipare a bandi europei. Il suo funzionamento è congelato.
Si potrebbe tornare alla normalità, se così si può dire, se l’Accademia vincesse il bando per la ricerca pubblicato dal governo nelle scorse settimane. Mette sul piatto una somma equivalente al vecchio bilancio dell’Accademia, ovvero circa 85 milioni di Euro. Ma il modo in cui il bando è stato scritto è molto discutibile. «Ci viene chiesto di presentare in 5mila caratteri, spazi e tabelle finanziarie incluse, il programma di ricerca per l’anno corrente. Una presa in giro», dice Bottoni. Ma c’è dell’altro. «A questo bando possono concorrere università, fondazioni e altri centri di ricerca. Tutti soggetti che hanno già fondi di base. In pratica si crea una competizione, sleale, per accaparrarsi il vecchio bilancio dell’Accademia delle Scienze. Un ulteriore modo per metterci alla corda».
Se l’Accademia delle Scienze non riuscisse a ottenere quelle risorse, si aprirebbe uno scenario incerto e pericoloso. Come detto prima, alcuni suoi dipartimenti potrebbero chiudere. Altri potrebbero essere assorbiti da università e altri centri di ricerca. Dell’Accademia, di come è oggi, potrebbe salvarsene solo una parte.
Il possibile smembramento si presta a due possibili letture. Da un lato, c’è un discorso di soldi. Nel 2021 l’Ungheria, come gli altri Paesi della “nuova Europa”, otterrà dall’Ue meno fondi strutturali. Quelli per l’innovazione e la ricerca, però, vengono confermati. Praticamente tutti. Il problema è che le università ungheresi versano in uno stato abbastanza pietoso. Hanno poche risorse e un numero di iscritti in calo. E non sono produttive, in termini di ricerca. L’Accademia delle Scienze, invece, ha standard di ricerca e produttività più alti. Trasferirne alcuni pezzi nelle università, sostiene qualcuno, potrebbe essere un modo per riqualificare le seconde e permettere loro di avere più possibilità di accesso ai fondi comunitari. «Eppure, è un’operazione artificiosa. Non è che trasferendo da un settore all’altro aumenta per forza di cose la produttività», ragiona Bottoni.
La narrazione che il governo sta dando per giustificare le novità a riguardo dell’Accademia delle Scienze è che quest’ultima – un club di garantiti, per una certa destra ungherese – debba essere svecchiata, debba adeguarsi ai tempi che corrono, mettersi sul mercato della ricerca e concorrere, per sentirsi stimolata. Ma per Bottoni la vera ragione dell’assalto all’Accademia è politica. «Sui nostri istituti di scienze umane, e quindi economia, antropologia, storia, sociologia, si avverte una pressione di tipo ideologico. Ben più, rispetto a un matematico o a un fisico, i ricercatori di queste discipline possono avere un impatto politico, affrontando determinati temi». E al governo questa indipendenza non piace. «Basterà ricordare che negli ultimi anni ha creato nuovi istituti di ricerca, da esso lautamente finanziati. Uno è Veritas, che si occupa di Ottocento e Novecento, fino alla Seconda guerra mondiale. Un altro è la Commissione per la memoria storica, che copre il periodo del comunismo. C’è inoltre l’Istituto per lo studio del cambio di regime, che ha competenza sul 1989 e sulla transizione. Per finire, sono di recente stati banditi cento posti da ricercatore per una nuova, ulteriore struttura, l’Istituto per lo studio dell’ungheresità, che farà ricerca su archeologia e linguistica». Insomma, il governo vuole avere il controllo sulla ricerca. L’indipendenza dell’Accademia delle scienze, in questo contesto di “revisionismo universitario”, rischia di saltare. Così come è saltata la Ceu, per quanto i casi siano tra loro differenti, per questioni di natura (l’Accademia non è un ateneo), grandezza (l’Accademia impiega più persone) e titolarità (l’Accademia non è di Soros).
Di certo, però, questo assalto alla più importante istituzione per la ricerca del Paese è l’ennesimo segnale che indica la mutazione profonda del sistema ungherese. «Freedom House, nell’ultimo rapporto sulla libertà nel mondo, ha descritto l’Ungheria come Paese parzialmente libero. È la prima volta che accade dagli anni ’90, e mai si era visto un simile giudizio per un Paese Ue», ricorda Bottoni, secondo cui alla creazione di un regime ibrido o un’autocrazia o una “democratura”, a seconda delle varie definizioni che si danno al modello Orbán, corrisponde un profondo cambiamento nella base di Fidesz, il partito del primo ministro. «Una volta era formato da gente che criticava i socialisti, gli eredi del comunismo, o apprezzava le politiche di Orbán. Ora invece viene cementato da messaggi primitivi. Dai piani di Soros, al pericolo migranti, al bisogno di fare figli per la patria. Credevo personalmente che a un certo punto tutto questo sarebbe finito, sia per una reazione della società ungherese, o dello stesso Fidesz, sia per i vincoli esterni. Ma non c’è stata la prima, né sono scattati i secondi. L’Unione europea non è riuscita ad arginare questo potere, che va avanti e di continuo fissa linee rosse, superandole. Né ci si poteva aspettare troppo, in funzione limitante, dall’America di Trump».
E così, in questa Ungheria di Orbán, anche per l’Accademia delle Scienze è arrivato il momento di combattere. Non è facile. «Gli appelli delle ultime due settimane fatti dall’Accademia non sono mai diventati notizia sui media di stato. Non sono mai stati rilanciati nemmeno dall’agenzia di stampa nazionale», chiosa Stefano Bottoni.