L'indimenticabile '68 di Praga

di Matteo Tacconi

«La politica era ovunque. Si parlava solo di politica. Se ne discuteva con gli amici, così come con gente mai vista prima. E qui a Praga capitava di farlo dappertutto: persino dentro i tram. All’epoca studiavo filosofia all’università, ma devo dire che appresi più cose in quei contesti che nelle aule della mia facoltà».

Una scuola di formazione politica dal basso, intensa e spensierata, in cui massima fu la libertà di riflettere, argomentare, dibattere, studiare testi o affrontare nodi della storia che in precedenza erano stati tabù: se la ricorda così, Petruška Šustrová, la Primavera di Praga, quella fase di incredibile eccitazione politica che contraddistinse una larga parte del 1968 cecoslovacco.

Quella frenesia intellettuale esplose con la rimozione della censura, decisa da Aleksander Dubček, il segretario del Partito comunista della Cecoslovacchia. «In tutto il Paese, anche se più in Boemia e Moravia che in Slovacchia, i giornali uscivano senza subire più il controllo del partito. Erano davvero liberi. Riflettevano quel clima di euforia e voglia di cambiamento», ricorda Šustrová.

Petruška Šustrová nella sua casa di Praga.

Petruška Šustrová nella sua casa di Praga.

Dubček si insediò alla guida del partito all’inizio di gennaio del 1968, con un programma di riforme inizialmente timido. Poi salì di tono, alimentando la grande speranza del “socialismo dal volto umano”, un sistema dove i diritti sociali tipici del socialismo potessero convivere con principi democratici che il comunismo aveva sempre negato, a partire proprio dalla libertà di stampa e di opinione.

Il piano di Dubček non trovò appoggio né a Mosca, né nelle altre capitali dell’Est, dove fu percepito come un’eresia intollerabile e pericolosa. Per questo motivo, Leonid Brežnev, il segretario del Partito comunista sovietico, optò per la scelta più dura: l’invasione della Cecoslovacchia, nella notte tra il 20 e il 21 agosto.

«Non riuscivamo a immaginarci che i carri sovietici sarebbero entrati a Praga», dice Petruška Šustrová, che in quella giornata e nelle successive fu tra le migliaia di praghesi che scesero in piazza per protestare contro l’occupazione della loro città e del loro Paese da parte dell’Armata Rossa e degli altri eserciti del Patto di Varsavia.

A nulla valse, però, quel grande moto d’indignazione. Vinse la restaurazione, e si aprì la lunga stazione della “normalizzazione”. Petruška Šustrová finì in carcere, restandoci due anni. Negli anni Ottanta divenne uno dei volti noti di Charta 77, il movimento dissidente fondato da Vacláv Havel, futuro presidente cecoslovacco e ceco. Dopo la fine del comunismo, nel 1989, si è dedicata al giornalismo, alla traduzione letteraria e alla ricerca storica.

Con lei, nella sua casa di Vinohrady, quartiere sulla sponda est della Moldava, il fiume che scorre dentro Praga, abbiamo ripercorso nel corso di un’intera mattinata quell’indimenticabile 1968, allargando il raggio al periodo della dissidenza.

Petruška Šustrová, per quale motivo in Cecoslovacchia si affermò nel 1968 un processo riformista, mentre in tutto il resto dell’Europa centro-orientale prevaleva un approccio conservatore, se non dogmatico?
Da noi ci furono due fattori che si congiunsero, dando avvio alla Primavera di Praga. Da un lato, c’era una grande effervescenza culturale, emersa già all’inizio degli anni Sessanta. Un simbolo di quella stagione fu la Nuova onda, il movimento di rinnovamento cinematografico di cui era esponente, tra gli altri, il regista Miloš Forman. Spinte innovatrici c’erano anche in altri settori del mondo culturale, per esempio nell’editoria. Giornalisti e scrittori reclamavano maggiore libertà.  

Parallelamente, c’era una pulsione riformista nel partito. Per comprenderla, bisogna fare un passo indietro nella storia. Il Partito comunista cecoslovacco aveva registrato l’adesione di molti giovani, al termine della Seconda guerra mondiale. Vedevano nel comunismo una leva per il cambiamento. Inevitabilmente, la denuncia dei crimini di Stalin operata nel 1956 da Nikita Chruščëv fu per loro un durissimo colpo. Iniziò allora a crearsi nel partito una corrente che, per senza rinnegare il comunismo, desiderava maggiore libertà. Negli anni Sessanta si propose abbastanza apertamente di intercettare e tradurre in qualche modo il dinamismo socio-culturale. Davanti a tutto questo, Antonín Novotný, il capo del partito, uno stalinista che governava circondato da una cricca di stalinisti, attuò una chiusura, attirandosi le ire crescenti della società e dei compagni di partito. Rimase infine isolato, e gli divenne impossibile rimanere al vertice.

E così Dubček assunse la guida del partito nel gennaio 1968 e lanciò questa idea del socialismo dal volto umano. La fine della censura, sancita a marzo, ne divenne il timbro. E forse fu anche l’inizio della fine?
In un certo senso sì. Dubček fu un po’ un Gorbačëv ante-litteram. Il leader sovietico, quando salì al potere, pensò che dicendo la verità sulle cose avrebbe aiutato l’economia a crescere e rafforzato il sistema nel suo complesso. Ma quel sistema era fondato sulla menzogna, e nel momento in cui inizi a dire la verità, un sistema del genere crolla. Lo stesso, vent’anni prima, capitò a Dubček. Restò prigioniero dell’illusione secondo cui la gente voleva il cambiamento, ma all’interno del contesto forgiato dal comunismo. Non capiva che, abolendo la censura, la gente avrebbe iniziato a dire la pura verità, ovvero che il nostro sistema era fondato sulla bugia e sulla sottomissione a Mosca.

A dire la verità, senza filtri, non si fece in tempo. Ad agosto scattò l’invasione. La notte in cui il Patto di Varsavia violò i confini cecoslovacchi ed entrò a Praga, lei come la visse?
Dormii. Il giorno dopo fu tutto molto strano. Ero già sposata, all’epoca, e avevo avuto il mio primo bambino. Era periodo di vacanza, e quella mattina, la mattina del 21 agosto, decisi che avrei fatto il bucato. Scesi in strada per andare a un negozio e comprare delle cose. Davanti all’ingresso vidi una lunga coda di persone. Pensavo che tutti fossero impazziti. Comprai ciò che mi serviva, poi tornai a casa. A un certo punto mi chiamò un’amica e mi disse che ci avevano invaso. Così realizzai che quella gente in fila stava facendo le scorte, perché aveva saputo dell’invasione e temeva di dover affrontare giorni durissimi. Io invece in quel momento ne ero ignara. Ma quando la mia amica me ne informò, presi tutti i pennarelli che avevo in casa e andai di corsa in facoltà per preparare cartelloni e manifesti di protesta.

Cosa ricorda di quei giorni di protesta?
Io e i miei compagni parlavamo ai sovietici nella loro lingua, il russo, perché la sapevamo. Cercavamo di spiegare loro che non c’era motivo di occupare Praga. Ma loro erano stati convinti che la Cecoslovacchia fosse stata invasa dalla Germania Ovest ed erano nel nostro Paese per liberarlo. Un giorno un soldato, stanco di sentire le nostre argomentazioni, ci puntò contro il kalashnikov. Eravamo certi che non avrebbe sparato, eppure fu un’esperienza molto pesante.  

Le proteste durarono per circa una settimana. Nel frattempo, Dubček e gli altri leader riformisti furono portati a Mosca, di fatto sequestrati. Lì firmarono la resa. Una volta tornato a Praga, Dubček fece un discorso fiacco, remissivo. Se lo ricorda?
Certo. E sentendolo capii che era davvero tutto finito. Litigai persino con i miei parenti. Un giorno avemmo una discussione molto accesa. Loro dissero che era necessario stare ancora al suo fianco, mentre io sostenni che non era possibile che lui accettasse in quel modo l’occupazione del nostro Paese. Restai veramente delusa, ma a pensarci bene c’era da aspettarselo, che Dubček avrebbe chinato la testa. Era cresciuto in Unione Sovietica, ed era un comunista fedele. Non avrebbe mai fatto nulla contro Mosca.

E lei era comunista?
Non sono mai stata iscritta a un partito.

Quindi non credette nella Primavera di Praga?
No, nel senso che non pensai mai che ci sarebbe stata una rottura chiara con il comunismo. Ero cresciuta con quel regime, che era statico, monolitico. E pur se in quel periodo si formulavano mille ipotesi, anche alla fine del ruolo guida del partito, non pensavo che il sistema potesse modificarsi in modo radicale. Però, questo sì, credetti che le cose si potessero fare meglio, e diversamente rispetto a come erano state fatte prima. Tanta altra gente della mia età condivise questa speranza.

Il cedimento di Dubček spense la fiamma, tra voi che protestavate contro l’occupazione?  
La resistenza civile non terminò così, dall’oggi al domani. L’energia positiva che c’era tra la popolazione durò ancora per qualche mese. A novembre, per esempio, gli studenti organizzarono un grande sciopero, che ricevette enorme sostegno da tutta la società. Arrivò gente da ogni parte del Paese, soprattutto operai. Per un po’ le azioni di protesta andarono avanti perché non era ancora evidente che tutto fosse finito. Ma in realtà lo era.

Poi si aprì la stagione della “normalizzazione”. Dubček e gli altri leader della Primavera di Praga vennero esautorati. La censura fu ripristinata. Ci furono anche molti arresti e molte condanne. Lei stessa subì questa sorte, giusto?
In carcere rimasi due anni, tra il 1969 e il 1971. Ebbi l’esperienza che tutti i detenuti hanno. Il primo giorno pensi che non puoi restarci per più di tre giorni, dopo una settimana dici che non resisterai per più di un mese, e dopo un anno ti abitui. Da un certo punto di vista si può dire che il carcere fu un’esperienza positiva. A posteriori la rivaluti. È una clausura forzata che ti costringe a fare una riflessione sulla vita, sui principi, sulle cose che vuoi seguire. E questo alla fine è un valore.

Subì torture?
No, perché in Cecoslovacchia non si torturavano i prigionieri politici.

Che Paese trovò quando uscì di cella?
Quello della normalizzazione, che era un mondo completamente diverso, molto cupo. I miei ex compagni, quando mi vedevano in strada, cambiavano lato del marciapiede. Ma non perché non mi volessero parlare. Temevano che qualcuno li potesse vedere insieme a me, una che era stata in carcere, malvista dal regime, e che questo li avrebbe compromessi.

Cosa fece dopo il ritorno in libertà?  
Ebbi altri quattro figli e li crebbi. Sul finire degli anni Settanta presi parte al movimento Charta 77, il motore della dissidenza. Ogni tanto riuscii a lavorare. Prima fui impiegata alle poste, poi feci la donna delle pulizie, ma nel 1982 venni licenziata per motivi politici, e fino al 1989 non potei più fare nulla. Fortunatamente, mio marito aveva un impiego. E poi ci dava una mano mia madre, che mandava soldi dalla Svizzera, dove si era trasferita dopo il 1968. Mio fratello andò con lei. Anche mia sorella si trasferì: a Berlino Ovest. Fui io l’unica a restare. Dissi a mia madre che questo era il mio Paese, e che erano gli occupanti a doversene andare, non di certo io.  

Cosa fu esattamente Charta 77?
Nacque come movimento per la difesa dei diritti umani, soprattutto quelli dei detenuti politici. In Charta 77 c’erano tre aree: quella dei comunisti delusi, quella cristiano-democratica e quella dell’intellighenzia e del mondo underground. Ognuna esprimeva un portavoce. Io fui portavoce per conto dell’ala intellettuale negli anni Ottanta. In Charta 77, Havel aveva una chiara autorità, superiore a quella di tutti gli altri, ma le decisioni erano prese collettivamente. A ogni modo, Charta 77 non si trasformò mai in un movimento politico. Questo perché su certi temi non ci saremmo mai messi d’accordo. Penso alla proprietà privata. Se ne avessimo discusso, ci sarebbero stati quelli che avrebbero voluto introdurla, quelli che avrebbero conservato il sistema comunista e quelli, infine, che avrebbero proposto una via di mezzo.

C’è un legame tra Charta 77 e la Primavera di Praga?
Politicamente parlando, no. In Charta 77, del resto, c’erano tanti anti-comunisti radicali che interpretavano il 1968 come un fenomeno interno al comunismo, lo scontro tra stalinisti e riformisti in altre parole. Ovviamente fu qualcosa di più grande e intenso, che mise in moto tante emozioni e una gran voglia di libertà. Ecco, forse in questo senso, intendo dire sul piano delle emozioni forti, una continuità ci può essere.

E tra il 1968 e la Rivoluzione di velluto del 1989? C’è qualche analogia?
Anche qui, in termini politici le assonanze sono minime. Del resto per moltissime persone il 1968 fu una grande scossa politica e morale. Si sentirono traditi dalla leadership dell’epoca, che prima li aveva illusi proponendo un grande cambiamento, e poi aveva accettato l’occupazione e la normalizzazione. Nessuno, nel 1989, volle recuperare il patrimonio del 1968. Però a livello di atmosfera, nelle modalità con cui la storia si manifestava e nel fatto che ovunque si parlasse solo di politica, il 1989 somigliò al 1968. La differenza essenziale fu che nell’89 era chiaro a tutti che sarebbe successo qualcosa e non sarebbero arrivati i carri armati. Nel 1968 non si capiva dove ci avrebbe portato quel bisogno di libertà. Io vissi entrambi quei momenti. Nel 1968 ero in piazza a protestare, e nel 1989 entrai in uno dei primi giornali indipendenti del Paese. Quello che si vive in questi momenti di cambiamento ti colpisce molto, è qualcosa che non si dimentica.

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