La lezione dell'89
di Matteo Tacconi
Il 4 giugno di trent’anni fa, la storia del comunismo prese due direzioni diverse. Opposte. Il regime cinese usò la violenza contro gli studenti, e ci fu il massacro di Piazza Tienanmen. Ancora oggi è un argomento tabù. In occasione della ricorrenza, Pechino ha applicato blocchi e filtri in rete, impedendo il dibattito e la condivisione di contenuti relativi a quegli eventi.
Nelle stesse ore, in Polonia, si tennero le elezioni parlamentari che avrebbero sancito l’inizio della transizione democratica grazie al clamoroso trionfo di Solidarność, il movimento sindacale e politico nato nell’agosto del 1980 al termine di un grande sciopero organizzato dai lavoratori dei cantieri navali di Danzica, guidati da Lech Wałęsa.
Si arrivò al voto sulla base dei cosiddetti accordi della Tavola Rotonda, un compromesso siglato nei mesi precedenti dal Partito operaio unificato polacco (Pzpr) e da Solidarność, con la mediazione attenta della Chiesa cattolica. La Tavola rotonda fu convocata dopo una nuova ondata di scioperi, scoppiati nel 1988 in tutto il Paese. La richiesta dei manifestanti si fondava sull’aumento dei salari, su migliori condizioni lavorative e sul reintegro nelle fabbriche degli attivisti di Solidarność che erano stati allontanati nel 1981 dopo l’approvazione della legge marziale da parte del generale Wojciech Jaruzelski, il leader polacco.
Il regime, davanti alla forza degli scioperi, optò per una soluzione diversa da quella di sette anni prima. Comprese che la situazione economica era gravissima. Capì che il suo consenso era in fase decisamente calante. E realizzò che si doveva aprire alla transizione politica. Gradualmente, ma in modo chiaro.
Deponeva a favore di tale soluzione la situazione a Mosca. L’Unione Sovietica del 1989 era profondamente diversa da quella dell’81, di Leonìd Brèžnev e della vecchia guardia. Al potere c'era Mikhail Gorbačëv, che aveva lanciato la perestrojka e cercava la distensione con l’Occidente a livello internazionale. Gorbačëv aveva fatto capire che non sarebbe ricorso alla dottrina della “sovranità limitata”, coniata da Brèžnev nel 1968 quando mandò i carri armati a Praga per stroncare il “socialismo dal volto umano” di Alexander Dubček, minacciando di applicare lo stesso piano in presenza di ogni altro impulso democratico in Europa Centrale.
Fu così che Solidarność venne nuovamente legalizzato, fu organizzata la Tavola Rotonda e furono convocate le elezioni. La competizione non era del tutto libera. Al Senato, la camera alta, tutti i 100 seggi risultavano contendibili, ma al Sejm, quella bassa, 299 scranni su un totale di 460 furono assegnati di diritto al Pzpr e ai suoi partiti satelliti. In quel modo, il regime cercò di assicurarsi ancora la gestione del potere e di includere Solidarność nelle istituzioni per alleggerire la protesta e cercare una soluzione condivisa nel superamento della crisi economica. Eppure, successe l’incredibile: fu bottino praticamente pieno per Solidarność. Al Sejm, conquistò 160 seggi sui 161 contendibili. Al Senato, 99 su 100: uno andò a un candidato indipendente.
Quel risultato grandioso, per certi versi inaspettato, non bastava comunque a costruire una coalizione di governo alternativa a quella a trazione comunista. Accadde però che i partiti satelliti di quest’ultimo si allearono con Solidarność, permettendo la nascita di un esecutivo guidato da Tadeusz Mazowiecki, un giornalista cattolico, un dissidente, uno dei grandi intellettuali che nel 1980 si recarono a Danzica offrendo a Wałęsa il proprio appoggio e aiutandolo a negoziare con il regime per il riconoscimento di Solidarność.
Il governo di Mazowiecki, sostenuto dalla presidenza Wałęsa (il fondatore di Solidarność sarebbe stato eletto capo dello Stato nel 1990), mise in campo un pacchetto radicale di riforme in campo economico che favorirono il passaggio rapido al libero mercato. Altissimi i costi sociali: chiusero molte fabbriche, persero il lavoro centinaia di migliaia di polacchi, l’inflazione schizzò alle stelle.
Ancora oggi in Polonia si discute molto sul 1989-1990. La destra al potere, guidata da Jarosław Kaczyński, un ex consigliere di Wałęsa, ritiene che la Tavola Rotonda fu un accordo anti-etico, perché proprio Wałęsa offrì al regime la possibilità di mutare pelle e conservare influenza nella nuova Polonia democratica. Al tempo stesso, sempre da destra, ma in parte anche da sinistra, si pensa che la terapia d’urto economica poteva essere meno brusca; che si potevano e dovevano creare reti di protezione sociale.
Di contro, i liberali polacchi, l’area politica cui appartengono Wałęsa e l’ex premier Donald Tusk, anche lui militante di Solidarność, anche lui di Danzica, affermano che le riforme del governo Mazowiecki, indispensabili, e il compromesso dell’89, saggio, siano la fonte della democrazia polacca e della lunga congiuntura espansiva dell’economia nazionale.
La discussione è molto netta: c’è il bianco, e c’è il nero. I toni grigi vengono raramente analizzati. Ciò che nonostante tutto viene da dire è che considerato il contesto di allora non c’erano molte alternative a quella partitura. Una partitura, almeno per ciò che riguarda la transizione patteggiata alla democrazia, che si sarebbe rivelata vincente anche nella vicina Ungheria. E qui comincia il resto della storia che raccontiamo.
Nel 1988 i comunisti riformisti ungheresi estromisero l’anziano leader János Kádár, salito al potere nel 1956 dopo la rivoluzione repressa nel sangue dall’Unione Sovietica. L’anno dopo fu riabilitato Imre Nagy, l'uomo che aveva cercato di guidarla, quella rivoluzione, dando al Paese uno sbocco socialdemocratico. Fu giustiziato nel 1958, e di lui non si poté più parlare. Tabù totale. Sempre nell’89, furono instaurati i colloqui per la transizione tra il regime e le opposizioni. Ricalcavano quelli polacchi sia nello schema che nel nome. Furono infatti chiamati Kerekasztal-tárgyalások, colloqui della Tavola Rotonda. Portarono anche in quel caso alla convocazioni di elezioni, nel marzo del 1990. Furono tuttavia completamente libere e democratiche, a differenza di quelle polacche.
In quello stesso giugno di trent’anni fa l’Ungheria balzò agli onori delle cronache per un fatto carico di significato simbolico. Il 27 del mese il ministro degli Esteri magiaro e l’omologo austriaco, Gyula Horn e Alois Mock, si videro nei pressi di Sopron, città ungherese di frontiera, e tagliarono un pezzo del reticolato che sin dall’inizio della Guerra fredda era calato tra i due Paesi. Era un messaggio chiaro, a favore della distensione sulla frontiera e nei rapporti diplomatici.
Pochi mesi dopo, il 19 agosto, sempre in quel lembo di confine, si sarebbe tenuto il celebre “picnic paneuropeo”. Fu una sorta di festicciola di frontiera organizzata dalle società civili austriaca e ungherese con l’appoggio dei rispettivi governi. Il programma prevedeva che per qualche ora il limes sarebbe stato aperto. I partecipanti al picnic avrebbero potuto mettersi alle spalle il reticolato, anche se solo per qualche metro. Un nuovo e ulteriore segnale di distensione, comunque, che rafforzava quello di giugno.
Successe che a un certo punto un migliaio di tedesco-orientali, in vacanza in Ungheria, si presentarono sul posto del picnic e superarono la frontiera, verso l’Austria. Le guardie ungheresi li lasciarono passare, permettendo loro di mettere piede in Occidente e di conquistare quindi la libertà. Fu la prova provata che i tedeschi dell’Est volevano emigrare, e non accettavano più di vivere in un Paese dittatoriale che aveva rifiutato la perestrojka di Gorbačëv e ripudiato le Tavole rotonde polacca e ungherese.
Il mese successivo ci fu un altro esodo, ancora più imponente. Migliaia di tedeschi dell’Est in vacanza in Cecoslovacchia si accamparono nel giardino dell’ambasciata della Germania Ovest a Praga. Il governo di Bonn concesse loro un salvacondotto. E per il regime di Berlino Est fu un altro enorme smacco: vacillò ancora, e di più. A ottobre, poi, scoppiarono proteste di massa nella capitale, a Dresda e a Lipsia. E a novembre cadde il Muro. E caddero, in quei mesi indimenticabili, tutti gli altri comunismi del vecchio blocco dell’Est. Non ci furono spargimenti di sangue. L’unica eccezione fu la rivolta contro Nicolae Ceaușescu in Romania.
«La terra sotto la porta di Brandeburgo è terra ungherese», avrebbe detto il cancelliere Helmut Kohl riferendosi al fatto che il picnic paneuropeo dell’agosto ’89 fu un passaggio cruciale della lotta per la libertà dei tedeschi e per la loro riunificazione. Ma il picnic non ci sarebbe stato in assenza della Tavola Rotonda ungherese, e quest’ultima non sarebbe convocata, in quella forma, se non ci fosse stata quella di Varsavia. Ancora una volta, la Polonia fu al centro della grande Storia. Finalmente senza essere vilipesa. Offrendo un contributo decisivo per la causa della democrazia. Il 4 giugno di trent’anni fa, mentre a Tienanmen scattava la repressione, Varsavia iniziava la transizione.