1968-1969: torce umane a Est
di Matteo Tacconi
Il 16 gennaio del 1969, quasi cinquant’anni esatti fa, Jan Palach, studente della facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Carlo IV di Praga, arrivò di buon’ora nella capitale cecoslovacca. Veniva da Všetaty, il paese, quaranta chilometri più a nord, di cui era originario. Si recò al dormitorio studentesco, dove aveva un alloggio, e scrisse una lettera. Dopodiché uscì, dirigendosi in piazza San Venceslao, spianata vasta e oblunga nel pieno centro dell’odierna capitale ceca. Portava con sé due taniche di benzina, perché voleva ardersi vivo e protestare contro l’occupazione della Cecoslovacchia, scattata nella notte tra il 20 e il 21 agosto dell’anno precedente. I carri armati dei sovietici, coadiuvati dagli altri eserciti del Patto di Varsavia, esclusi il romeno e l’albanese, fermarono con la forza la Primavera di Praga, l’esperimento di democratizzazione del comunismo sdoganato dodici mesi prima da Aleksander Dubček, non appena fu nominato nuovo segretario del Partito comunista cecoslovacco al posto dello stalinista Antonín Novotný.
Dubček voleva costruire un “socialismo dal volto umano”, coniugando i diritti sociali del marxismo con le libertà personali e politiche del liberalismo, senza a ogni modo rompere con Mosca. L’abolizione della censura, stabilita a marzo, divenne l’atto portante del suo progetto. E anche l’unica riforma vera approvata. L’invasione di agosto impedì che le altre, messe in cantiere per l’autunno, prendessero forma, dimostrando brutalmente che il comunismo, così come codificato a Mosca, era refrattario a ogni innovazione.
Palach, che aveva creduto nella Primavera di Praga come tanti altri coetanei e come tantissimi altri connazionali, scelse quella forma estrema di protesta ispirandosi ai monaci buddisti che nei primi anni di quel decennio si erano auto-immolati per denunciare le politiche discriminatorie, in materia religiosa, praticate dal governo sud-vietnamita, protetto dagli Stati Uniti. Una volta sulla piazza, il giovane Jan, classe 1948, andò davanti alla scalinata del Museo Nazionale, si tolse il cappotto, si cosparse di combustibile e si diede fuoco. Le fiamme salirono alte, avvolgendolo interamente. Palach corse per la piazza, poi si accasciò davanti a un negozio di alimentari. Alcuni passanti riuscirono a spegnere il fuoco sbattendoci sopra i loro cappotti. Lo studente, ancora cosciente, chiese loro di aprire la valigetta che aveva con sé, e di estrarre e leggere la lettera che aveva scritto al dormitorio e che vi aveva infilato. Il titolo era “Pochodeň č. 1”: torcia umana n° 1.
Palach avanzava due richieste, tra loro strettamente collegate. La prima: ripristinare la libertà di stampa. La seconda: chiudere Zprávy, il giornale stampato dall’occupante sovietico dopo l’invasione della Cecoslovacchia. Se non fossero state esaudite entro il 21 gennaio altre torce umane sarebbero passate all’azione, scrisse Palach, alludendo all’esistenza di un gruppo di persone disposte, come lui, a dare la vita. Poi si sarebbe saputo che non era vero.
Gravemente ustionato, Palach fu portato da piazza San Venceslao all’ospedale da un’ambulanza giunta sul posto. Morì tre giorni più tardi, il 19 gennaio, poco dopo le tre del pomeriggio. In ospedale fu interrogato più volte. Lucidamente, spiegò sempre che il suo gesto era assolutamente politico e che lo aveva fatto per scuotere le coscienze dei cecoslovacchi. Avevano appoggiato Dubček, erano scesi in piazza contro l’occupante, dopo il 21 agosto, con un’eroica prova di resistenza civile. Avevano continuato a organizzare proteste e iniziative anche nei mesi autunnali. Ma poi qualcosa si era spezzato. L’entusiasmo era venuto meno. Ci si stava rassegnando alla “normalizzazione”, il processo di restaurazione imposto dal Cremlino a suon di purghe, scatenate ovviamente anche contro Dubček e i suoi principali alleati, tutti estromessi dal potere. Palach aveva percepito questa perdita di adrenalina. Sentiva che il popolo stava piegandosi. Fu questo a spingerlo al gesto estremo.
Come detto, sortì degli effetti, anche perché la notizia della sua morte si sparse rapidamente in tutto il Paese. I cecoslovacchi recuperarono forza interiore e tornarono a protestare. Una grandissima risposta popolare arrivò il 25 gennaio, il giorno del funerale di Palach. Così Enzo Bettiza descrisse sul Corriere della Sera quella giornata.
Si è dispiegata oggi, 25 gennaio, la più impressionante manifestazione collettiva dopo l’invasione. Sotto un cielo grigio e incombente, piovigginoso, intonato al lutto, Praga si è riversata muta per le strade. Calcolando anche quelli venuti dalla provincia, un corteo di circa un milione di boemi si è stretto e addensato intimamente, tutt’intorno al feretro invisibile, come una sola compatta muraglia umana.
Il gruppo di torce umane menzionato da Palach nella sua lettera non esisteva. Nondimeno, il sacrificio dello studente fu imitato da altri giovani. Tra il 16 e il 31 gennaio si registrarono dieci casi di auto-immolazione. Una sola morte: quella di Josef Hlavatý, 25 anni, che si diede fuoco il 20 gennaio. La vittima aveva problemi psicologici e familiari, per cui il suo gesto non fu dirompente agli occhi dell’opinione pubblica. Né lo risultarono tutte le altre torce umane delle settimane successive: nemmeno Jan Zajíc e Evžen Plocek, di cui si sa e si è scritto di più nel corso degli anni.
Anche Zajíc aveva diciott’anni. La vicenda Palach lo colpì molto, e da Vítkov, luogo di cui era originario, si recò a Praga il 21 gennaio per prendere parte alle proteste organizzate dopo la morte dello stesso Palach. Vi restò fino al giorno del funerale. Poi vi fece ritorno il 25 febbraio, immolandosi anch’egli in piazza San Venceslao. Morì pochi istanti dopo. Lasciò una lettera in cui si definì “torcia umana n°2”, spiegando che dopo il sacrificio di Palach e il risveglio delle coscienze da esso generato, la gente stava di nuovo rassegnandosi. Al suo funerale, a Vítkov, parteciparono 8mila persone, ma l’eco rimase confinata a livello locale. Il regime si adoperò per evitare un altro caso Palach. E andò allo stesso modo con Evžen Plocek, originario di Jihlava, a sudest di Praga, un sindacalista di 39 anni che era stato delegato al congresso straordinario e segreto con cui il Partito comunista cecoslovacco, subito dopo l’invasione, denunciò quest’ultima e confermò l’impegno per le riforme. Plocek, deluso dal fatto che la gente aveva smesso di lottare per la democrazia socialista, si arse vivo a Jihlava. Il governo impedì alla stampa di recarsi sul posto.
Il mancato clamore, per i casi Zajíc e Plocek, si motiva con le manovre del regime, ma anche con il secondo effetto causato dall’auto-immolazione di Jan Palach. La gente sentì di nuovo una forte energia interiore, ma avvertì al tempo stesso che quell’auto-immolazione era un sacrificio troppo alto, che necessitava di un coraggio estremo, eroico e lucido. Questa tensione, tra la voglia di lottare ancora e quella di arrendersi, si manifestò in modo evidente proprio durante il funerale di Palach, sostiene Petr Pithart, giurista, scrittore ed ex primo ministro ceco dopo la fine del comunismo. «Al funerale di Palach, per l’ultima volta, la gente si presentò in strada in massa, pronta a riprendere la lotta. Eppure, alla fine di quella giornata tornò a casa a testa bassa. Palach, con il suo gesto, mise in luce in modo brutale tutta la gravità di ciò che stava accadendo», afferma Pithart, incontrato a luglio a Praga, aggiungendo: «E così molta gente, dentro di sé, pensò: “Va bene, se è questo ciò che ci si chiede, se si è chiamati a un gesto del genere, non è possibile farcela. È troppo”. Non ci si poteva sentire a tal punto eroi. E la gente si rassegnò, piegò la testa».
Jan Palach, da allora celebrato come martire della libertà e della democrazia, fu emulato anche fuori dalla Cecoslovacchia. Quasi sempre si venne a sapere del suo sacrificio attraverso le trasmissioni clandestine di Radio Europa Libera, l’emittente con sede a Monaco di Baviera finanziata dal Congresso americano (trasmette ancora oggi, ma da Praga). In Ungheria si registrò l’auto-immolazione, il 20 gennaio 1969, del diciassettenne Sándor Bauer. Si diede fuoco davanti al Museo Nazionale, così come aveva fatto Palach a Praga. Il 13 aprile, Ilja Aronovič Rips, lituano, si auto-immolò per protestare contro il dominio sovietico e l’occupazione della Cecoslovacchia. Si salvò. Tre anni dopo, sempre in Lituania, fu Romas Kalanta, operaio di 19 anni, a darsi fuoco in piazza. A differenza di Rips, perse la vita.
Poi ci furono le torce umane che precedettero Palach e gli altri. Furono due, per ciò che è dato sapere. Entrambe le auto-immolazioni sono del 1968. La prima avvenne a Kiev, la seconda a Varsavia. A Kiev fu Vasyl Makukh, patriota anticomunista di 40 anni, a darsi fuoco. Era il 5 novembre. Protestava contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia e per la libertà dell’Ucraina dal gioco russo-sovietico. Morì il giorno stesso. La torcia umana di Varsavia si chiamava Ryszard Siwiec. Si arse vivo l’8 settembre. Morì il 12 settembre. La sua fu la prima auto-immolazione avvenuta oltre la linea della vecchia Cortina di ferro.
Vale la pena raccontare ancora questa vicenda, davvero incredibile, rimasta dimenticata fino al 1989, l’anno del crollo del comunismo in Polonia. Fu riscoperta grazie al documentario Usłyszcie mój krzyk (Ascolta il mio pianto), realizzato nel 1991 da Maciej Drygas. È proprio dal regista, incontrato nel 2015 nel suo appartamento di Varsavia, che abbiamo raccolto tutte le informazioni che da qui in poi riportiamo sulla storia di Siwiec.
Siwiec nacque nel 1909 nella parte di Polonia che all’epoca si trovava sotto il controllo dell’Austria-Ungheria, che insieme agli impero russo e prussiano (poi tedesco) si spartì la Polonia sul finire del Settecento, cancellandola successivamente dalla mappa geografica. Siwiec si laureò in filosofia a Leopoli, nell’attuale Ucraina, città che tra le due guerre era parte della Polonia tornata indipendente. Dopo la laurea, trovò impiego come contabile in una ditta di Przemyśl, sul sudest del Paese. Scoppiata la Seconda guerra mondiale, fece parte dell’Armia Krajowa, l’esercito clandestino polacco. Non appoggiò mai il regime comunista che si instaurò a Varsavia dopo il conflitto. Ne fu anzi fortemente critico, e quando gli fu offerto di insegnare storia nelle scuole si rifiutò di farlo. Sapeva che la docenza non sarebbe stata libera. Nella Polonia comunista, Siwiec, che nel frattempo si sposò ed ebbe cinque figli, si sentiva a disagio. Visse praticamente da auto-esiliato.
Quando le truppe del Patto di Varsavia, comprese quelle polacche, invasero la Cecoslovacchia, pensò che fosse necessario lanciare un messaggio estremo. Optò per l’auto-immolazione. Si recò a Varsavia in treno per la festa del raccolto agricolo, l’8 settembre 1968, a tre settimane scarse dall’occupazione della Cecoslovacchia. Fu celebrata allo Stadio del Decimo anniversario, che oggi non c’è più (al suo posto è sorto un altro grande catino, lo Stadio Nazionale). Siwiec riuscì a entrare nell’arena e durante la manifestazione, ungendosi con un solvente, si diede fuoco. Mentre bruciava – si può osservare dalle immagini della sua auto-immolazione – gridò delle frasi, probabilmente di protesta, inseguito da alcuni spettatori che cercavano di salvarlo, spegnendo le fiamme con le giacche. Una volta soccorso, Siwiec fu ricoverato in ospedale, dove spirò quattro giorni più tardi.
Le autorità aprirono un’indagine, la cui conclusione fu rapida e netta: suicidio motivato da problemi psichici. Le immagini del suo gesto non furono mai diffuse. Alla famiglia fu imposto il silenzio. La censura calò anche sulle foto scattate dalla stampa.
Dopo la caduta del regime, Drygas si mise alla ricerca di notizie sulla storia di Siwiec. Ricordava quel fatto, e aveva il sospetto che dietro ci fosse qualcosa di strano, di politico. Andò all’Archivio centrale degli audiovisivi a Varsavia, ma non disse che cercava informazioni su Siwiec, perché gli impiegati erano gli stessi dell’epoca comunista, e non si fidava di loro. Spiegò che stava lavorando sulla storia dei raccolti agricoli, per prenderla larga, in altre parole. Gli fu portato un grosso quaderno di foto, tra cui quelle dell’evento dell’8 settembre 1968. Due immagini erano ritagliate. Drygas capì che era la traccia giusta. Risalì al fotografo che realizzò lo scatto, lo contattò ed ebbe conferma che la parte tagliata dell’immagine – eliminata dalla censura – ritraeva Siwiec in fiamme. E da lì tutta la storia fu ricostruita.
Siwiec, come detto, aveva programmato tutto. Agiva coscientemente. Prima di partire per Varsavia registrò un lungo discorso. Era un’analisi impietosa del comunismo. Il filosofo sosteneva che quel sistema era marcio e irriformabile, destinato a cadere nel giro di pochi anni. Poteva sembrare un’interpretazione assurda, ma si rivelò puntuale, visto ciò che successe solo due decenni più tardi.
Quel nastro fu consegnato a un amico, che lo nascose. Temeva che i servizi segreti potessero trovare la cassetta, e arrestarlo. Poi però, quando anche in Polonia giunse la notizia del sacrificio di Palach, decise che il mondo doveva sapere della storia di Siwiec. Pensò a come farla circolare. All’epoca la Polonia era un Paese chiuso, non c’era la possibilità di venire in contatto con la stampa occidentale, il canale più immediato per diffonderla. Allora andò all’ambasciata britannica, ma quando la raccontò lo presero per pazzo, o per un provocatore.
Sembrava tutto finito, ma il caso gli offrì un’opportunità. Un giorno, mentre era alle poste, gli cadde l’occhio su un catalogo di un’azienda di arredamenti. Un’azienda svedese. Si segnò l’indirizzo e spedì lì una lettera sulla storia del suo amico auto-immolatosi, chiedendo di inoltrarla alla redazione di Radio Europa Libera. E così andò. La missiva vi giunse nell’aprile 1969. I giornalisti la lessero, ma non avevano modo di verificarne la veridicità. La censura era calata sul sacrificio di Siwiec, come detto, e le fonti locali non sapevano nulla di quella faccenda. Così alla fine la decisione che presero fu quella di dare in modo rapido e asettico la notizia. Davanti al microfono, un conduttore disse che l’8 settembre, secondo quanto appreso dall’emittente, un uomo di nome Ryszard Siwiec si era arso vivo a Varsavia per protestare contro l’invasione della Cecoslovacchia, ed era morto pochi giorni dopo.
Anche lui, come Jan Palach, si era ispirato ai monaci buddisti del Vietnam del sud. E questo è l’unico legame tra la storia della prima torcia umana dell’Europa centrale e quella oggi più nota.